Correte lenti cavalli della notte – racconto di Matteo Branduardi

Correte lenti cavalli della notte – racconto di Matteo Branduardi

Si chinò sulla terra, sentì la fresca umidità della sera. Sulla pelle l’erba odorava di sale, chiuse gli occhi e rivide la Grecia, rivide i tramonti caldi di luce velata, le nubi incendiate all’orizzonte dagli ultimi raggi del sole. A Creta aveva visto il cielo prendere fuoco e avvampare e farsi cupo come porpora e poi spegnersi dolcemente fra le grida dei pescatori a poco a poco nei bagliori del mare. Ricordò la dolce stanchezza che seguiva all’amore nei pomeriggi d’estate, il riposo nei letti impregnati d’ambra, quando persino la sazietà e la noia sembravano colme di promesse.
Ruppe il filo dei ricordi. Poggiò l’orecchio al suolo, come aveva appreso dagli Ircani. Distinse un ronzio a tratti impercettibile, simile agli impulsi e alle spinte del sangue. Erano in tanti. Una coorte, forse di più. E non erano lontani: avrebbero impiegato mezz’ora prima di arrivare. Si sollevò, con l’eco degli zoccoli che ancora gli pulsava all’orecchio come una danza. O forse era il cuore, che aveva accelerato il suo battito.
Passeggiò in giardino. Il vento umido che veniva dal mare muoveva le foglie degli alberi e la tunica gli aderiva alla pelle in un abbraccio freddo che gli dava i brividi. Si era promesso di non farlo, eppure pensò alla morte. Pensò a come giunga sempre inaspettata, sebbene la si aspetti da sempre. A come suoni sempre incomprensibile, anche se per tutta la vita si è accumulato sapere. Sedette sul muretto, sotto il fico selvatico. Nell’agosto ventilato, l’albero era punteggiato di mammoni: infruttescenze incommestibili, parvenze di frutti. Ne strappò uno e affondò le dita nella polpa, poi vi immerse le unghie e la lingua, fino al punto di indovinarne il sapore, qualcosa di cupo e dolciastro con un’ombra di morte. Si chiese che sapore avesse la morte, se non fosse infondo qualcosa di piacevole, come tutto ciò che è necessario per l’uomo.
No, non li avrebbe aspettati. Non avrebbe atteso che i soldati circondassero la villa. Non avrebbe sentito il chiasso dei loro proclami, né visto il coltello brillare fra le mani del tribuno, né permesso che uomini volgari gli usassero violenza. Che gli urlassero di porgere il collo, di entrare in una vasca piena d’acqua calda.
Pensò di scrivere, ma non per fare testamento. Chiese le tavolette, e congedò l’ultimo servo. Alla scarsa luce delle torce rimase curvo per minuti senza muovere un muscolo. Pensava al mattino che doveva venire, al mondo che sarebbe continuato, a quel mondo di accuse e di confische, di esecuzioni, di stragi. Pensava a dove si sarebbe svegliato lui domani. A cosa avrebbe fatto, appena sveglio, domani. Forse le cose di sempre. Portare le mani al viso per stropicciarsi gli occhi, stendere i muscoli per ravviare la circolazione del sangue, alzare lo sguardo al soffitto, osservare il balenare dei fosfeni sotto l’arco delle palpebre. E poi il formaggio, le olive, il miele greco. Però lontano, indefinitamente lontano, per altre strade e altre piazze, in una dolce continuità di gesti, un filo d’abitudini teso fra mondo e mondo. Rise allora della sua superstizione, come sempre d’ogni superstizione aveva fatto.
Poi tornò a sperare. Nella grazia, nella commutazione della pena, nell’esilio. E si vergognò di sperare. Pensò ai suoi compagni, agli amici già morti, a quelli come lui ormai senza scampo. A chi si dibatteva ancora tra la speranza e il timore. A chi aveva denunciato le persone più care pur di salvarsi. A chi aveva infierito sugli antichi complici, per sfuggire al sospetto. Pensò di nuovo alla morte, alla paura della morte, e gli vennero in mente i Cristiani. Quella razza di uomini immonda, superstiziosa, odiata da tutti. Seguaci di un criminale giustiziato in Galilea per i suoi delitti. Che nel suo nome, per sua istigazione, erano causa incessante di conflitti. Lui stesso aveva partecipato alle istruttorie sui Cristiani, aveva condannato chi perseverava, rilasciato chi invocava gli dèi e rinnegava Cristo e supplicava con incenso e vino davanti alle immagini. Però una cosa non riusciva a dimenticarla.
Li aveva visti coi suoi occhi dopo l’incendio, trascinati in catene e gettati in pasto ai cani, coperti di sputi e di pelli, bruciati vivi nella notte perché illuminassero le strade come torce. E nel supplizio non gridavano, non piangevano; morivano come fratelli, cantando inni a Cristo, tra il fuoco e i denti delle bestie, con un sorriso pieno di speranza. Si diceva che agissero così perché immuni alla morte. Perché c’era in serbo per loro un altro mondo e un’altra vita, nella pace, nella giustizia, eternamente.
Con due dita si fregò le sopracciglia, si massaggiò per pochi istanti la fronte. Si accorse allora di averla tenuta aggrottata troppo a lungo, e volle scacciare una tensione muscolare che era una specie di rimpianto. Non aveva bisogno di un’altra vita, né di un altro mondo. Riprese le tavolette, non c’era più tempo.
Pensò al giovane che aveva amato in Grecia, quando era stato proconsole della provincia di Creta e Cirene, negli anni più intensi della sua vita. Decise di scrivere a lui la sua ultima lettera. Scrisse che non l’aveva mai dimenticato, che non aveva smesso di pensare a lui dopo la partenza, prima confusamente, e via via con sempre più forza e una luce accecante che bruciava i confini delle cose e gli toglieva il respiro. Anche adesso lo sentiva presente, in un modo che gli era meraviglioso ed ignoto, adesso che scriveva per lui la sua ultima lettera, le ultime parole da seminare nel mondo. Disse di avere a lungo immaginato l’azzurro dei suoi occhi, nel caldo torrido di Roma, sotto i porticati soffocanti della Curia, quegli occhi cangianti come il mare della Grecia, che ai raggi diretti del sole si facevano verdi, inebrianti, appena stemperati, al centro, da una goccia limpidissima di giallo. Scrisse di averlo amato all’istante, senza saperlo né volerlo confessare, senza alcuna possibilità di replica o di appello, stretto nel pugno del suo amore come qualcosa di inerme, per una congiura dolcissima del destino cui non voleva sottrarsi. Scrisse che adesso, in quell’ora estrema e deserta di agosto, ogni circostanza della sua vita compiva in lui la sua musica e in lui trovava il suo accordo. Ed era questo, da amico fedele, l’ultimo debito che potesse risolvere. Quando ebbe finito di scrivere, raschiò la cera e la ridepositò sulle tavole, compatta, immacolata, cancellando ogni parola.
Ormai i cavalli si udivano distintamente in fondo alla campagna, e l’aria era satura dell’odore pungente della polvere alzata. Si levò, camminò fino alla fontana, una splendida fontana decorata a mosaico, si bagnò le tempie con l’acqua limpida, si aggiustò i capelli con noncuranza, come se uscisse per andare a teatro. Guardò il suo anello, il gioiello più prezioso che avesse, un solido cerchio in oro massiccio, ben pulito, risplendente, con al centro una corniola rosso sangue, intagliata, che recava come sigillo l’immagine della Fortuna. Era un’incisione arcaica, antica di secoli: la dea si riconosceva per la cornucopia che recava in mano e per le spighe di grano; in testa portava il modio e ai suoi piedi giaceva il timone di una nave. Ma ciò che l’aveva affascinato da sempre era il volto della dea: privo di connotati e di disegno, astratto, consisteva solamente in un intrico di fasci sovrapposti, simili ai rami di salice con cui venivano intrecciati i panieri.
Si sfilò l’anello e ruppe il sigillo, perché non servisse per lettere false e nuove denunce; con un brivido spezzò il viso della dea, quel nodo informe e mostruoso nel quale tutto era scritto senza che lui avesse potuto leggervi niente. Quando gli uomini in armi cominciarono ad accerchiare la villa, dalle vene era già uscito molto sangue e la sua pelle aveva la coloritura opaca della calce e la visione era traballante e vitrea, come di qualcosa intravisto attraverso l’acqua.

Matteo Branduardi

Condividi questo post