Come cagne – racconto di Emma Mattiussi

Come cagne – racconto di Emma Mattiussi

Strasburgo, 1518

Quando la piaga arrivò, la stavamo aspettando. Sapevamo che era per noi, nonostante poi molti uomini si unirono. Frau Troffea fu la prima a cedere: a metà luglio, a tre ore dal tramonto, nella stradina angusta che porta dall’Holzmarkt a Nostra Signora, le cadde di mano la cesta con la biancheria lavata fresca. Ce ne accorgemmo subito che stava ballando, anche se i movimenti erano convulsi e tremava tutta. Faceva grandi cerchi con le braccia e saltellava sui piedi, consumando le scarpette di tessuto sottile. Qualcuno la accompagnò a casa quella sera, e non era la cosa giusta da fare. Il giorno dopo stava ancora ballando.
Sapevamo che la prima sarebbe stata Troffea. Aveva desiderato la danza quasi quanto noi e cedette più facilmente al suo richiamo. Era figlia di una madre buona, in una famiglia piccola, un padre che lavorava tanto da avere i lineamenti riconoscibili solo al buio. Era abituata bene, a lavare i panni al fiume ogni settimana. I problemi erano arrivati dopo il matrimonio, quando i muri di casa avevano iniziato a mandare vibrazioni continue lungo le strade della città, quando si mostrava al mercato zoppicante, le labbra viola, quando morirono i suoi bambini. Iniziò a ballare il ventidue, il giorno in cui sua figlia, l’unica, si alzò dal letto e si tenne la schiena, perché la pancia aveva preso a pesare.
Noi la tenevamo d’occhio, quasi quanto tenevamo d’occhio il fiume, con la paura quotidiana che straripasse e che ancora una volta rovinasse il raccolto. Ci davamo i turni, ci raccontavamo nei dettagli le nostre osservazioni, se qualcosa di strano, di diverso, accadeva al ballo di Troffea. Durò ininterrotto per una settimana, poi trentatré di noi si unirono. Per prime quelle che fra noi stavano peggio – le prostitute, le mendicanti, le mogli battute con i figli morti, le ebree. Ballavamo storte, oblique, scomposte, per ore per ore per ore.
I barcaioli e commercianti che approdavano in città, dimostrarono crescente entusiasmo per lo spettacolo. Chi arrivava si aspettava cinquanta di noi e invece ne trovava cento. C’era chi portava i propri figli a guardare, chi ci disegnava sulla terra con un bastoncino, chi ci cantava qualche canzone malinconica. A inorridire erano gli esperti accorsi in aiuto: preti, medici, studiati. Si segnavano in silenzio prima di appuntarsi ogni particolare della nostra danza per capirne l’origine e definire una cura.
A metà agosto, a ballare eravamo in quattrocento ma a quel punto più di una era già crollata. Troffea non aveva smesso: le sue scarpe si ruppero definitivamente e ballava a piedi nudi, sanguinanti. Erano stati anni difficili per tutte e forse anche per tutti, ma gli anni sono più leggeri per chi comanda; noi non lo potevamo sapere. La danza era un modo di scrollarsi – come cagne randagie dopo la pioggia – il dolore, di sciogliere i nodi avvelenati rimasti incastrati nel corpo.
L’alchimista famoso che venne in città quell’estate parlò di vene ridenti, di come il nostro sangue si fosse scaldato tanto da solleticarci la pelle dall’interno. Qualcuno chiese una messa, ma il Vescovo si fece convincere dal Consiglio che non sarebbe servita a nulla. Fino a quel momento la nostra danza era stata silenziosa, fatta di fruscii, salti, automatismi della voce che seguivano il corpo con piccole grida intermittenti. Si costruì un palcoscenico in piazza, davanti a Nostra Signora, e si iniziò a suonare giorno e notte. Ai musicanti fu ordinato di partire lentamente e di aumentare il ritmo sempre più, fino a suonare in modo impossibile. La prima di noi a morire morì in questa occasione.
Allora il palco venne smantellato, si vietò la musica all’interno delle mura e si espulsero le peccatrici e gli eretici. Pensavano che così avrebbero purificato le strade, ma troppe di noi stavano già ballando. Furono cacciate le mendicanti, le prostitute, le straniere, le alcolizzate, i menestrelli, gli invertiti, i sodomiti, i pezzenti. E sapevamo che non sarebbe servito. Continuammo a danzare ancora più forte, senza che i nodi si sciogliessero mai del tutto.
A settembre tre convogli ci portarono alla grotta di San Vito. Qualcuno di autorevole aveva confermato che il santo avrebbe interrotto la danza e noi ci credemmo perché non avevamo altro in cui credere. A Zabern dovevamo portare una moneta in offerta, ma non ci rimaneva più nulla e furono le guardie cittadine a consegnarcene una a testa. Ci trascinarono all’altare e ci fecero inginocchiare. Ancora tremanti, guardammo il santo, biondo, bellissimo, e la sua bellezza calmò il sangue che rideva nelle nostre vene. Lo sentimmo scorrere in modo più fluido, più caldo. San Vito aveva lunghi ricci e gli occhi sereni rivolti dritti a noi, le mani unite in preghiera. Stava nudo, i fianchi larghi, nel calderone infuocato. Sembrava una di noi, solo che lui nelle fiamme stava immobile, sorrideva. Quando lo guardammo, ci guardò negli occhi: ci disse di fermarci, di accettare l’inevitabilità di tutto quello che ci era accaduto e che avrebbe continuato ad accaderci, perché tutto era disegno divino. Il fiume sarebbe straripato di nuovo rovinando i raccolti, i topi ci avrebbero mangiate nel sonno, il fuoco avrebbe eliminato ogni cosa ed era giusto così. Ci alzammo e iniziammo a vagare come spettri per la grotta. Lo guardammo da ogni angolo, lo vedemmo come in sogno venirci incontro, uscendo dal calderone delle sue torture, soltanto per noi. Ci guarì circondandoci con il suo corpo infuocato, assorbendo il nostro fuoco. Sapevamo di desiderarlo da tempo.
All’uscita dalla grotta, consegnarono a ognuna una piccola croce in legno e un paio di scarpe rosse decorate da una croce dorata cucita sul lato e consacrate con l’olio. Ci segnammo con l’acqua prima di tornare. Immobile, sui carri che ci portarono in città, Frau Troffea si addormentò.
Sapevamo che qualcosa di grande stava per avvenire, qualcosa che avrebbe scosso il mondo. Noi l’avevamo sentito, come cagne prima di un terremoto. Lo sussurrava il fiume e noi al fiume davamo sempre ascolto. Al nostro ritorno, l’alchimista famoso, in piazza davanti a Nostra Signora annunciò che la danza era stata uno strumento divino per instillare la modestia nei peccatori, così che gli strasburghesi potessero vivere e comprendere sulla propria pelle, nelle proprie vene, la passione che Cristo aveva patito per noi. Ci chiamò streghe che erano state salvate e lui era un’autorità e noi sapevamo che aveva ragione.

Emma Mattiussi

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