Acquasanta – racconto di Laura Calagna Bambini

Acquasanta – racconto di Laura Calagna Bambini

Avevo ventitré anni quando raccattai Giacobbe tra gli scarti di frutta e verdura al mercato. Mio figlio mi era appena esploso tra le gambe.
Giacobbe era sporco di pesche marce e di foglie di verza andate a male. Aveva occhi serrati da muco diventato infezione. Il moncherino alla gamba e la mano senza le dita erano violacei e purulenti. Puzzava, e le mosche l’avevano già attaccato, ma non piangeva. Neanche i cani si erano avvicinati al neonato. Piuttosto, quando lo tirai su, nudo e sporco, ché non gli avevano avvolto manco una pezza intorno all’inguine, mi sorrise. O almeno, tentò di sorridermi.
Mio figlio invece se l’era portato via il mare. Non avevo avuto bisogno di dottori. Avevo sorseggiato il decotto di prezzemolo ed ero rimasta nell’acqua, aggrappata agli scogli, ad aspettare che l’aborto finisse di sconquassarmi il ventre e la schiena.
Intorno a noi gli ambulanti strillavano nella nostra lingua dura, che più che incitare ad avvicinarsi sembrava invitare a fuggire. Il mercato era una baraonda, infelice come tutto il paese, arroccato su un monte a strapiombo sul mare, dimenticato sia dai vivi che da quel Dio che le vecchie si ostinavano a pregare.
La spilla da balia mi segava ancora le cosce, teneva ferme le pezze con l’ultimo sangue dell’aborto. Avevo impedito che una vita si formasse dentro di me, che assumesse le sembianze di un altro bambino che il paese avrebbe calpestato. Ma non era servito a niente. Il paese aveva gettato un neonato in pasto alle mosche. Non si erano nemmeno posti lo scrupolo di far vivere Giacobbe. Con me non ci erano riusciti. Io ero sopravvissuta e, quando se ne accorsero, li avevo ormai marchiati con la mia infamia.
Portai Giacobbe a casa con me. Avevo occupato da poco il granaio in mezzo al bosco, stanca di fare la puttana nelle case dei signori. Il granaio veniva usato dai cacciatori, che non hanno provato a cacciare me. Avevano paura che avrei reso la loro arte eternamente infruttuosa.
Pulii il neonato, gli curai le palpebre e le mutilazioni con una mistura di artiglio del diavolo, achillea e mirra. Gli feci bere dello stramonio per stordirlo e non fargli avvertire dolore, anche se non sembrava soffrire.
Nemmeno io, in fondo, percepivo più a cosa mi costringeva il paese. Avevo smesso di sentire le botte da bambina, quando le suore mi prendevano a vergate se la mia vecchia divisa avesse a loro dire una macchia, se non facevo le lettere come volevano loro, se portavo il cucchiaio alla bocca in modo inappropriato, o, per lo più, se respiravo. Avevo smesso di sentire le ingiurie e le maledizioni quando fiorì il mio corpo di femmina. Strega, mi dicevano, ianara. Mozzavano la mia definizione aspirando le vocali con il naso e tranciando le consonanti con i denti, masticavano il mio nome mentre mi palpeggiavano sotto la veste. Assimilavano la mia esistenza alla cattiveria e, quando mi calò il sangue, avevo smesso di interrogarmi se fossi più cattiva io o il paese.
Non saprò mai se Giacobbe è nato così o se sia stato mutilato dopo. A lui non sembrava importare, non sapevo neanche se riuscisse a comprenderlo, e io avevo altri pensieri.
Resi il granaio un luogo confortevole. Adattai a mo’ di culla una vecchia cassapanca che i cacciatori usavano per stipare le armi e la riempii con dei cuscini; ricamai per lui delle coperte e delle vesti.
Qualche giorno dopo l’arrivo di Giacobbe, la femmina di daino che aveva partorito nel retro del granaio si piazzò sulla porta. Il suo odore di selvatico e pino coprì quello delle mie erbe. C’eravamo tenute a distanza per tutto il tempo, rispettose ognuna dello spazio dell’altra. Ci studiavamo durante il giorno, le portavo del cibo e lo mangiava solo se mi allontanavo. Adocchiò il bambino, mi spronò a seguirla e mi fece conoscere i suoi cuccioli. Per ricambiarla le presentai il mio, e il bosco non ha mai toccato Giacobbe.
In quel modo, lo resi una sua creatura.
Avevo capito di appartenere alla selva e non al paese quando marchiarono la mia carne. Avevo quindici anni, le suore mi avevano catturata, legata, strappato la veste e chiamato il vescovo, venuto in visita. L’uomo mi aveva notato riempire il catino di acqua santa. Avevo urlato, graffiato, ma aveva solo aumentato la sua foga. Dopo, mi dissero che ero stata io a sedurlo. Era mia la colpa, in quanto femmina, perciò ero indegna di restare nella casa di Dio. Con l’aiuto di certe signore per bene mi avevano trascinata nel bosco e gettata sotto le querce, nel tratto frequentato dai cinghiali. Non riuscivo a focalizzare nulla. Il sangue mi colava tra i capelli e nelle gambe e in bocca avevo il sapore del ferro e delle carni del vescovo.
Avevo provato a tastare il muschio, a stringere tra le dita le foglie secche per sentire ancora il mio corpo. Avevo incontrato qualcosa di vischioso, che prese a strisciarmi sulla mano e mi si avviluppò al polso. Con le tempie che ronzavano e fischiavano ero rimasta a guardare la vipera scivolarmi addosso. Avevo atteso il morso, ma non venne niente, e se venne non me ne accorsi. Mi ero addormentata con la morte accoccolata sul petto.
La mattina, mi avevano tenuta calda i lupi.
Stavo dando a Giacobbe latte rubato ai butteri quando spalancò gli occhi e mi rivelò due pietre scure, senza il velo di un’emozione, e non li richiuse più. Me lo legai al collo, presi il bastone e mi trascinai fino agli scogli, cullandolo. Speravo che la brezza e il moto del mare gli facessero da nenia, ma il bambino non piangeva e non dormiva. Si limitava a fissarmi e in quegli occhi rispecchiava il mio fallimento. Non ero esperta di neonati, mi ci vollero settimane per capire che dormiva a occhi aperti. Persi il sonno per stargli dietro, lo scrutavo pronta a vedermelo spirare tra le braccia.
Sopravviveva a ogni spasmo, a ogni infezione, a ogni latte di capra, pecora, bufala che mi procuravo, a ogni pappa di gallina o maiale che riuscivo a catturare. Giacobbe sopravviveva, soprattutto, ai veleni che gli davo per curarlo, le uniche medicine che avevo a portata di mano.
Era quello a renderlo mio.
Non avevo soldi, i pochi che mi davano gli uomini li mettevo da parte per far studiare Giacobbe. Un modo per mandarlo via da qui l’avrei trovato, fosse anche buttare giù il monte. Conoscevo il modo per farlo e, se non avesse funzionato, avrei ritentato fino a riuscirci.
Le femmine mi fissavano malevole, persuase che quel fagotto che mi ostinavo a trascinare su per il monte e giù per la spiaggia fosse il seme dei loro mariti. Il livore contraeva le loro labbra mentre cantavo la ninnananna a Giacobbe, a piedi nudi sul marmo della piazza. Volevo rassicurarle che non dovevano preoccuparsi, quello che mi era morto tra le gambe era il figlio del prete e questo, invece, sapevano loro di chi fosse erede. Provavo soddisfazione e un certo potere a mostrare quella creatura impura per tutto il paese.
Provarono a portarmelo via.
Mi inviarono un uomo e una donna vestiti bene che si qualificarono come amici del vescovo. Li feci accomodare sulle sedie di paglia e sui cuscini di velluto che avevo barattato tempo prima con il merciaio in cambio del mio corpo. Offersi a quei signori un tè, Giacobbe legato al collo con la sua espressione vuota e la mano monca che giocava con i miei capelli. Profumava di latte e dell’unguento con cui gli massaggiavo le ferite.
Nel retro del granaio, la daina bramiva e picchiava il muro. La sentivo fare avanti e indietro oltre la porta e volevo dirle di star quieta, nessuno avrebbe toccato i suoi cuccioli, men che meno il mio.
Con un cucchiaio di legno roteai e roteai l’acqua sul fuoco, con calma estrassi una manciata di erbe e le misi in infusione. Mi sedetti con gli ospiti. Annuii a tutto quello che dicevano. Certo che capivo le loro intenzioni, volevano prendere il bambino solo per il suo bene. Ma sì che ero disposta a cederglielo senza opporre resistenza, l’avevano detto anche loro, io non avevo i mezzi per crescere un neonato come si conviene. Non avrei mai potuto dargli le possibilità che meritava, un’altra famiglia l’avrebbe reso un uomo, gli avrebbe dato le cure adeguate e l’istruzione giusta. C’era già il fratello del vescovo che si era offerto.
Avevano gettato un neonato nell’immondizia, certi di sbarazzarsene, ma purtroppo per loro l’aveva preso la ianara che si ostinava a non andarsene. In fondo, però, le prede si circuiscono con le carezze e avevo già imparato la lezione.
Almeno, dissi, lasciate che vi dia le coperte che ho ricamato per lui.
Sorrisi dello stesso sorriso ebete di Giacobbe, indicai a quei due le tazze fumanti; si fissarono. Vedete, non sono in grado di occuparmi di lui, bevo a qualsiasi ora, la mia casa puzza di fumo ed è piena di muffa, il bambino sta sempre male e sentite questi rumori, la selva è pericolosa, non posso permettermi una casa in paese. Vi stavo aspettando. Qualcuno doveva venirselo a prendere. Cosa ci faccio io con questa creatura?
L’uomo e la donna bevvero il tè.
Poi, per la prima volta, sciolsi Giacobbe dal mio grembo e lo depositai nella culla. Mi fece strano non averlo attaccato, poter muovere le braccia senza paura di farlo cadere o di fargli male. Mi sentii vuota. Mio figlio abortito mi aveva riempito l’utero per una manciata di settimane, ma Giacobbe mi aveva scaldato il seno e il ventre da quando l’avevo trovato. Ebbi paura che un lupo o un cinghiale potesse strapparmelo mentre mi liberavo dei corpi. Immaginai con chiarezza gli altri animali dilaniare la daina e fare incetta di tutti i cuccioli, compreso il mio. Vidi una vipera strisciare sul pavimento fino alla culla, e lì mi riscossi. Il bosco non me l’avrebbe mai portato via.
Di fronte alla porta si stagliò la daina. Un cucciolo fece capolino dietro le sue zampe.
Ci guardammo, si scostò e mi indicò il sentiero. Sarebbe rimasta lei di guardia.
Impiegai un’ora buona a trascinare i corpi nella boscaglia, in uno dei sentieri dove perfino io non mi spingevo. Mi slogai una spalla e dovetti spalmarmi un unguento sulle giunture e fasciarmi le dita, dopo. Risalii il pendio accompagnata da grugniti e strusciate dietro gli alberi, qualche cinghiale doveva aver avvertito la puzza di morte. Non li temevo, ma accelerai il passo. Al granaio, Giacobbe dormiva nella culla, gli occhi sempre sbarrati; una bolla di saliva si gonfiava tra le sue labbra, la fronte piatta.
Lo tirai su, lo tastai come quando l’avevo trovato, alla ricerca di qualcosa di diverso, di un morso o una zoccolata. Ma non c’era niente. Era lo stesso bambino che avevo trovato tra le scorie dei banchi di frutta, solo profumato di erba e caldo di coperte.
Per un attimo, ebbi paura che il paese mi avrebbe arrestata, ma io ero sopravvissuta ai lupi e avevo dormito con le vipere. Loro no. Avrebbero dovuto raggiungere il granaio e mi resi conto che la selva aveva lasciato passare quei due a mo’ di avvertimento. Voleva che li ritrovassero. Nessuno si era mai spinto fin qui con cattive intenzioni, erano tutti venuti per fare con me ciò che le mogli si rifiutavano di fare con loro.
A ogni modo, per quanto ne so, cercarono i corpi per giorni, ma non trovarono niente. Non vennero a bussare da me. Avrebbero dovuto squarciare i ventri dei cinghiali, tuttavia non fecero nulla.
Nessuno fu più inviato a portarmi via Giacobbe, o a portare via me.

Mi sono svegliata con la febbre e in casa ho finito la scorta di radici di ontano. Ho spedito Giacobbe a strapparmene altre, ormai è grande e sa come si fa.
Mi sorride con i denti tutti dritti. Ha imparato a camminare senza trascinarsi la gamba di pezza che gli ho cucito e senza strofinarsi il guanto sui capelli radi. Ogni volta si provoca escoriazioni che gli fanno spalancare la bocca a vuoto.
Non ha imparato a parlare.
Sono seduta sul tavolo di quercia, la testa avvolta in stracci che mi ronza e fischia. Il bicchiere di fronte a me è colmo di liquido trasparente e foglie di eucalipto, mi brucia la lingua. Credevo che nella brocca ci fosse acqua, volevo farmi un infuso e dormire, invece è grappa. Giacobbe deve averla riempita senza distinguerla. Il camino scoppietta e le fiamme si agitano nei miei occhi drogati dalla febbre e dall’alcool.
Tossisco, tra il male e l’odore del legno non so cosa sia peggio. Porto il bicchiere al naso, di solito l’eucalipto mi aiuta a respirare, ma ho appena scoperto che non ha lo stesso effetto con la grappa.
Sulla mensola ci sono i libri e le tele di Giacobbe. Li rubo pur di insegnargli qualcosa, l’istruzione è l’unico modo per salvarlo. Mozzica le tinture, quella blu è posata sulla macchia del mare che dipinge sempre.
Mi viene da vomitare e mi fa male la pancia come quando ho bevuto il decotto di prezzemolo e il feto mi è esploso tra le cosce.
Le ombre iniziano ad allungarsi fuori al granaio, Giacobbe doveva essere qui da un pezzo. Non ho forze per andarlo a cercare e mi ripeto di nuovo che non gli succederà niente, si sarà solo incantato a guardare il mare dalla scogliera, come sempre. La daina abita ancora con noi, lo riporterà lei a casa.
È la prima volta che esce da solo, ma non può essere l’ultima. Ormai sta crescendo e io non potrò difenderlo per sempre.
La testa mi fischia e ronza e so alla perfezione cosa sta accadendo.
L’ultima volta che mi sono fidata del paese sono finita con una vipera in seno, ma io sono la strega, ribadisco tra me e me, Giacobbe è solo un bambino. Io ho cercato di difendermi, Giacobbe non parla, conosce solo me, i daini e le erbe che gli ho insegnato. Non può chiedere aiuto.
Basta. Sbatto le mani sul tavolo, il rumore mi provoca un capogiro e per placarlo mando giù altra grappa. Mi alzo, afferro il bastone e una torcia, la accendo nel camino e barcollo verso la porta.
Mi affaccio dal granaio, le fronde delle querce e dei pini sibilano come spilli nel mio cervello. La daina non bramisce e non sento i suoi passi leggeri. Sarà uscita a cercare cibo per i suoi cuccioli, o a riprendere il mio.
Punto la torcia verso la cappa di nebbia di fronte, il piede calpesta terra bagnata.
Mi addentro nel bosco.

Certo che ti prendo le radici. Quelle nere nere e puzzolenti che mi graffiano sempre. E lo ripeti: Quelle di ontano, hai capito, Giacobbe?
Sì sì sì, Giacobbe capisce, pure tu mi capisci, sei l’unica che mi ascolta anche se non parlo.
Mi guardi con una smorfia, mi dai un bacio sulla fronte e ti giri dall’altra parte del nostro letto, ti rimbocchi le coperte fino ad accapparti le orecchie. Guarda che non sono stupido, sai? Capisco tutto, capisco. Mi hai insegnato a leggere e io leggo, anche se tu non mi senti, con l’indice macchio le lettere di sudore per inseguire le parole e non farmi fregare, ché devo arrivare prima di loro sennò me le perdo. Ma le capisco, che ti credi?
Mi hai insegnato a scrivere e io ho scritto. Certo, le lettere non sono belle come le tue, io disegno le parole tonde tonde, grandi grandi. Così le vedo bene, piccole come le tue quando si vedono? Ti infastidisci che spreco fogli, ma da me che vuoi?
Fai piano, Giacobbe, e stai attento!
Prendo il cappello, lo calo sulla testa senza che ti raccomandi, vedi? No, che non vedi, sei girata e stai male. Una volta che devi guardarmi non lo fai.
A me dispiace che stai male. Ho strascicato ‘sta zampa monca che m’arritrovo e t’ho messo sul fuoco il pentolone di coccio, con la mano sana t’ho preparato il brodo che mi fai sempre tu. L’hai bevuto ma non ti sei ripresa come mi riprendo io. Mi sa che ho scordato qualche erbetta tua, di quelle che tieni in alto così non c’arrivo.
Metto pure il mantello che hai rubato al mercato, quello rotto, che ti sei messa là seduta di fronte al camino e hai rammendato fino a sera. Mi arriva sotto i piedi, fa una pozzangherella intorno, ma tu Vedi come ti sta bene? Sembri proprio un signore.
Non è che sono tutto convinto che tieni ragione te. Anche gli uomini che vengono a trovarci e sotto cui fai versi strani li chiami Signori, di fronte a loro, e quando se ne vanno gli cambi nome e diventano Coglioni.
Io mi chiedo se sei tutta sana, non è mica possibile che si chiamano tutti Signori Coglioni. E poi noi ci chiamiamo sempre Giacobbe e Lucilla, come fanno questi a cambiare nome così?
Giacobbe, copriti bene che fa freddo!
E se t’arrigiri vedi accome me so’ accappato!
Apro la porta, la richiudo bene come dici te, trascino la zampa finta sul sentiero e mi addentro tra i pini, giù verso il mare. È lì che stanno gli ontani, mi hai spiegato che a loro piace l’acqua.
Guarda che ti ascolto e capisco, sì sì sì capisco, non come gli altri bambini che mi prendono in giro quando mi porti in piazza. Mi tieni per la mano buona, la tua è bella morbida e la mia è appiccicosa. Mi spingi verso di loro per farmi giocare. E io ci vado, ogni volta c’arriprovo. Mi ricordo la prima, quando i figli dei signori correvano dietro al pallone fatto di stracci e mi sono avvicinato. Che voglia avevo di lanciarlo pure io.
Addu vai, storpio? Hanno riso.
Tu li hai fissati, ritta sulla panchina di marmo accanto alla fontana, con le gambe incrociate e nascoste nella gonna sgargiante, il bastone fermo accanto a te. Non ti serve il bastone, a me serve, ma tu te ne fotti, non me lo dai, lo usi per mettere spavento alle femmene e al paese.
Ho preso coraggio, se c’eri tu là non m’avrebbero fatto niente. Si sono mossi come per passarmi la palla, invece questa mi ha centrato la pancia e ho sbattuto la faccia sui sampietrini. Gli altri bambini sono scoppiati a ridere, il secondo dopo ho visto le loro gambe sane piegarsi storte per la fretta di fuggire. La tua gonna mi ha sfiorato. Impugnavi il bastone, gli occhi incandescenti. Camminavi lenta, il tempo di arrivare al centro della piazza e quelli s’erano già rintanati dentro le case loro.
Ti sei fermata là, zitta e dritta, e hai alzato lo sguardo. Non sei venuta a chiedermi se mi fossi fatto male, non sei corsa a raccogliermi. Da terra ho visto le signore spiarti dietro le finestre, le hai fissate una per una.
Poi sei venuta da me.
Il giorno appresso mi hai riportato, e quello dopo ancora, e ancora. I bambini mi fanno toccare la palla, ogni tanto, ma ho imparato che devo stare al posto mio. Mi accontento di guardarli.
Stiri le labbra quando mi dicono storpio. I tuoi occhi diventano brace e loro scappano. Finché stai tu, nessuno tiene la faccia di continuare.
Io non lo so perché sto con te, né perché tu stai con me.
Fa friddo, il fango scricchiola sotto le scarpe. È venuto l’inferno. Tutti lo chiamano così e solo tu vai dicendo inverno, che tanto l’ho capito che pure tu eri una Signora e poi t’hanno fatto quello che hanno fatto a me.
L’inferno mi attraversa il mantello, mi va gelando le ossa. Mo’ tu te ne stai bella in faccia al camino e a me tocca veni’ qua dentro, ma non mi pesa mica, sai? Te quando sto male io vai sempre cercando l’erba giusta, finalmente oggi posso farlo io.
Non mi metto spavento degli animali né delle serpi, a differenza tua, che scatti nel letto se senti una civetta di notte e mi abbracci stretto quando ti calmi.
Sono arrivato agli ontani, mi piego attento a non inzozzare di fango la gamba finta, che dopo mi rimproveri. Trovo il punto delle radici morbide, come mi hai insegnato, scavo con il guanto e con le dita buone.
Ed è lì che li sento.

Perdonami, mamma, se non t’ho mai parlato.
Se non ho mai chiuso le palpebre e non t’ho mai fatto capire se dormivo o facevo finta.
Se non ho controllato che non ci fosse nessuno intorno alla casa prima di uscire, che nessuno mi seguisse, che nessuno fosse pronto a entrare. Lo sai come sono fatte queste orecchie, una volta sentono e tre no. Me le curi sempre e mi accappi la testa con la lana così stanno calde.
Perdonami, mamma, se sono nato ciocco.
Se li ho sentiti troppo tardi. Se non ti ho mai voluto dare retta quando dicevi che stavano aspettando il momento buono per scacciarti, che dovevano far fuori la ianara e non hanno pietà di un bambino.
Perdonami, mamma, se oggi ho urlato.
Se ho gridato così forte che hanno dovuto tapparmi la bocca. Prima con una delle loro braccia, li ho mozzicati, sai? Avresti fatto quel mezzo sorriso che mi fai sempre quando combino qualcosa di giusto. Poi mi hanno ficcato in gola una pezza e hanno ricominciato. Ma io ho continuato a urlare, mamma. Ho urlato così tanto che sono venute le femmene. L’hanno fatto loro, alla fine.
Avevi ragione tu.
Perdonami, mamma, se non hai fatto in tempo a sentire la mia voce.
Se non riesco più a resistere, vorrei respirare e chiederti scusa ma è faticoso e loro continuano. Adesso i miei occhi rimarranno aperti per sempre e non avrai più bisogno di capire se dorma.
La daina è accorsa, ma loro erano troppi ed è rimasta nascosta ad aspettare che il paese andasse via. Ti scorta da me e tu ti metti a strillare al posto mio, punti il bastone al cielo e chiami a raccolta i fulmini.
Brucia, affoga, butta giù il monte, rispetta la promessa che mi hai fatto quando mi hai trovato. Sai come si fa, sai sempre tutto. Non hai più niente da perdere senza di me, dicevi. Grida anche per Giacobbe.
Mi porti a casa, mi vegli, prepari una pira e mi fai il funerale. Dietro di te il daino femmina. Spargi le cenerei sugli scogli che mi piacevano tanto.
Perdonami, mamma, se non t’ho portato le radici.
Scomodi i vasetti ai ripiani alti. Ti avventuri nelle grotte, attraversi il promontorio da dentro. La daina ti segue. Non le parli, mamma, non le dai manco la solita carezza come quando passeggia con noi. Raggiungete la fonte, tu e lei sapete che quella non è acqua di mare, ma l’acqua dolce che finisce nei pozzi e nell’acquedotto del paese. Loro credono cali dalla cima della montagna, la chiamano “l’Acquasanta” perché non hanno mai trovato l’origine. Sgorga senza una madre.
Perdonami, mamma, se non stato attento che mi portassero via.
Tu guardi la daina e lei ti guarda. Stappi i vasetti.
Ricalate la grotta, ormai s’è fatta notte, vi avviate lente verso casa.
A quanto ne so io, hai solo reso la loro acqua più buona, mamma. A me non ha mai fatto male, anzi, mi aiutava a star meglio. Ti siedi di fronte al camino, la daina e i cuccioli ai tuoi piedi. Aspetti. Chiudi gli occhi e getti la testa indietro, mi canti la ninnananna. Io ti rispondo e tu mi ascolti.
Perdonami, mamma, se ti chiamo così anche se tu non vuoi. Che tanto la mia voce l’hai sempre sentita lo stesso.

Laura Calagna Bambini

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