Cronica de’ fatti occorsi in Roma a Gantrid milite tedesco, donde si fece monaco romito – racconto di Salvatore Napoli

Cronica de’ fatti occorsi in Roma a Gantrid milite tedesco, donde si fece monaco romito – racconto di Salvatore Napoli

Nell’anno del Signore 897, indizione XV, nel III giorno dalle idi di gennaio, io, Gantfrid dei conti di Guntherloch, devoto servitore del re di Germania Arnulf, al cui seguito discesi nel Regno d’Italia per difendere il Santo Pontefice da Lamberto, duca di Spoleto e imperatore dei Romani, spergiuro e usurpatore del Sacro Patrimonio di Pietro, affinché gli venisse strappata la corona imperiale di cui papa Formoso, credendolo amico e protettore di Santa Romana Chiesa, gli fece dono per esser poi dal fellone spoletino vilmente tradito e della quale, dopo aspra pugna, il medesmo pontefice cinse infine il capo del mio sovrano, umile servo di Dio, perché la sacra persona del vicario di Cristo giammai più avesse a subire oltraggio alcuno e il ducato affidatogli dal grande Costantino per intercessione divina potesse in eterno ospitare la città dell’Onnipotente, invoco la clemenza e la misericordia del mio re però che possa comprendere e perdonare il suo fido cavaliere, che oggi ha rinunziato all’arme e agli abiti guerreschi per vestir null’altro che la misera tonaca e che, genuflesso e compunto, ha baciato la terra che bevve il sangue del Primo Papa, giurando in nome del suo sacrificio di non possedere più che questi cenci e di non brandir più spada che non sia la croce di legno che sempre, d’ora in poi, porterà sul cuore.
Quando codesto vello giungerà a palazzo, io sarò ormai svanito nel folto delle selve che ammantano le ripe montuose d’intorno a Roma. Parrà al mio re che io l’abbia abbandonato e, ancor peggio, tradito; ma, per la saggezza ch’ebbe in dono dall’Onnipotente, sono certo che comprenderà, in ultimo, le ragioni che mi spingono a rifuggire le cose mondane e a cercare, nella solitudine, Nostro Signore Dio. Considerate invero, Signor mio, rinovellato il mio giuramento di fedeltà: come impugnai la spada, così brandirò la croce. Pregherò per Voi giorno e notte, finché non verrà la mia ora, e il vostro ricordo mi darà conforto nelle notti senza luna, quando a farmi compagnia nel buio della fredda spelonca non sarà che l’ululare del vento e dei lupi.
Ultimo di tre figli maschi, il mio buon padre, Uthor, che già i due maggiori aveva destinato all’ arme, volle che fossi chierico e m’affidò, ancora bambino, a suo fratello, Erhbart, il più savio e autorevole dei canonici del capitolo della chiesa cattedrale di Erfurt, che m’introdusse nella magnifica scuola di quell’episcopio e ai suoi eccellenti maestri: ivi fui istruito alla teologia e alla filosofia, alla retorica e alle lettere antiche, al diritto e alle croniche dei nostri prodi e gloriosi avi. Crebbi, così, educato all’arti liberali, che nutricano l’intelletto e lo spirito, e quanto più i miei prodi fratelli furono esperti e valorosi nel menare la spada, tanto più io fui lesto a menar la penna, oltreché la lingua, nello scrivere e nel favellare in buon latino, e l’occhi, nel leggere e studiare i manoscritti dei sapienti antichi.
Ma ben altri sentieri, frattanto, tracciava per me il Sommo. Accadde, ahimè, che mio fratello Ulrich, primogenito e futuro erede del patrimonio paterno nonché signore di Wablunghen per investitura dei margravi di Turingia e il benestare dei duchi di Sassonia, grandi principi del regno, paladino dell’onore e della gloria della schiatta nostra, miseramente passò di questa vita pugnando in difesa dell’abbazia di Ruftaldt, dalle cui ubertose terre i villani di quei pagi traevano il loro sostentamento e che allora pativano l’invasione dei predoni magiari. E però che spettava ora al secondogenito Eilgrim assumere la contea, e che i turpi bellatori s’attestavano frattanto sulle ripe d’Elba, da cui si partivano a saccheggiare le terre e i villaggi d’intorno con furore ed empietà di pagani, senza tema alcuna dei militi chiamati a difenderli e del sacrilegio commesso nell’indurre alla fuga i cenobiti, donde l’abate e i signori e i castellani suoi vicini fecero più folte le loro armate, per volontà paterna la tonsura infin copersi coll’elmo lucente di cavaliere; né mai però barattai per la gloria dell’armi la sapienza che acquistai nei miei anni di scolaro, e fui perciò tra i pochissimi dell’ordine dei militi a padroneggiare altresì l’armi dell’eloquenza, del bello scrivere, del filosofare, che non le guerresche sole.
Giunsi così a impugnar la spada e a montar il palafreno, sebbene al mio picciol sembiante di fanciullo più s’addicesse, in verità, dorso di giovenca o di mulo. Ma giammai provai fatica né tema alcune d’esser guerriero; ché m’ardeva nel cuore il più cieco furore per la truce dipartita del mio compianto fratello, il quale solo avrei potuto domare e spegnere con la vendetta. Avevo sedici anni quando mi s’offrì il tanto agognato destro, allorché una masnada di quei selvaggi senza Dio volle rendere ancor più atroce la mia collera col dare il sacco ad alcune corti della marca nostra. Fui io stesso, poscia che i miei compagni d’arme ebbero messo in fuga i guiderdoni, a uccidere il loro duca in duello e a consegnare la sua testa all’abate di Ruftaldt perché venisse infilzata su una lunga picca ed esposta, insieme a diverse altre, lungo il sentiero che vi conduce, come monito a chiunque avesse osato ritentare la scellerata impresa. La mia fama di guerriero ardimentoso e di paladino cristiano si sparse allora per tutta la marca, e non passò un mese che, per il volere dei grandi di Sassonia, mi fu affidata la castellania di Mentzer, avamposto di quella regione di confine, che così potemmo liberare, infine, dalla piaga ungara.
Per tal cagione il mio principe Arnulf, re di Germania e solo legittimo erede del Grande Carlo e del suo Santo Imperio, volle che gli prestassi i miei servigi di bellatore quando, nel febbraio dell’anno del Signore 895, egli discese finalmente nel Regno d’Italia onde adempiere alla missione per che fu fatto, dall’Onnipotente e dal suo messo in terra il Pontefice, supremo duca; e io, quale suo fido paladino, giurai di lavare col sangue dei gaglioffi spoletini l’onta terribile con cui avevano insozzato la grandezza e la santità del vescovo di Roma, prostrata per la sacrilega opera di Ageltrude, madre di Lamberto, la quale, bramosa di tiranneggiar l’Italia tutta, osò di annettersi le terre della Langobardia Minore, con che avrebbe conchiuso il ducato di Roma finendo per stritolarlo fra le sue spire serpentine, e che a tal fine invase Benevento per Guido suo consorte, di Lamberto padre, che costui volle associarsi nella dignità imperiale.
Negl’anni di mia ioventudine, molto avevo letto di Roma e della sua eterna gloria, dei suoi uomini più prodi, che la fecero grande e forte: di Cincinnato, che possedeva pochi iugeri di terra i quali egli stesso, con le sue braccia, coltivava, ma che per lo ‘ngegno che aveva nell’arte bellatoria, fu fatto dittatore e condusse alla vittoria i concittadini suoi nell’aspra pugna contra gli Equi nemici di Roma, per poi umilmente svestire la toga pretesta, riconsegnare il fascio e tornare infine, privato cittadino, alla sua umile occupazione di coltivatore; di Attilio Regolo, console indomito, che per sciagura fu vinto e preso dai punici e che preferì il supplizio al disonore della pace ch’essi, per la persona sua, intesero strappare ai suoi concittadini; di Scipione, che il sacrifizio suo e dei figliuoli di Roma tutti caduti per lo fiero Annibale onorò col sangue degl’inimici e colla gloriosa vittoria, che s’andò a pigliare fino in Africa; e poi di Cesare e del suo erede Ottaviano, che furono i padri di quell’imperio che l’ecumene intiero dominò per mill’anni e rotti, e che, sotto Costantino il Grande, fu benedetto da Dio.
Ma non valse libro alcuno ad eguagliare ciò che provai in cuor mio allorché, passate le massicce mura d’Aureliano imperatore, potei finalmente mirare le meravigliose ruine di quella maestosa cittade, ch’ancora serbano memoria della somma potestate per ch’essa si pose in capo al mondo intero. Qual pargoletto ai piedi d’un gigante, forte spaurii dinanzi all’anfiteatro degli imperatori Flavi! E tanto fu l’estro che mi colse rimirando il teatro di Marcello, presso cui ebbe la curia sua il grande Pompeo, che mi parve di udir le grida di Cesare, curvo sotto gli stocchi dei traditori! E quante lagrime m’offuscarono il guardo, allorché m’apparve la santa basilica che sorgeva sulla terra consacrata dal martiro di Pietro!
E adesso, che ad Arnulf era toccato in sorte il retaggio degli imperatori di Roma, a noi, i suoi cavalieri, spettava di difendere, proprio come Cincinnato, Regolo e Scipione, l’onore e la santità della cittade che gli spoletini intendevano, a guisa di novelli goti, oltraggiare. Tanta fu la foga che m’animò in battaglia, ch’alle mie braccia giunse una forza inusitata, e tali furono i fendenti inferti dalla mia spada che, in un sol colpo, i pedoni ebbero fessa la persona dal capo al ventre e i cavalieri mozza la testa e tronco il busto. Ma l’estro furioso e feroce che dimostrai nell’aspra pugna non poté affatto eguagliare l’ardimento che m’infiammò il sangue allorché, liberata la città di Pietro, in pompa magna papa Formoso, con al seguito i vescovi del suburbio, gli uomini più nobili e magnifici dell’Urbe con le proprie corti, chierici e monaci in gran copia e infine il mare magno della plebe capitolina, pose sul capo del mio signore Arnulf la più gloriosa delle corone, mentre tutti esultavano e gioivano, ché Roma aveva finalmente ritrovato l’agognata pace, donde i suoi antichi imperatori tratto avevano giustizia e concordia.
Trascorse due settimane dalla sublime cerimonia, durante le quali il mio re e imperatore dimorò in Roma onde vigilare su Formoso papa, punire i ribelli e sedare i riottosi, investito il grande e valente nobile del regno Farold del governatorato romano, Arnulf marciò su Spoleto, deciso ad annientare Lamberto e Ageltrude, che adesso riparavano con somma villania nella fortezza da cui signoreggiavano la città. Ma il volere di Dio, assolutamente giusto, assume talora forme sibilline, ineffabili agli occhi, all’intelletto e al cuore di noi miseri: così accadde in quella fiata, allorché, nel bel mezzo della marcia, Arnulf cadde preda improvvisa d’un male oscuro, che fece il suo corpo di pietra e lo costrinse immobile in un greve giaciglio.
Eppure, nulla parve turbare, nei primi due mesi della nostra permanenza nell’Urbe, la pace ritrovata. Fu in questo breve intervallo di quiete che scoprii ciò che non avrei mai voluto intendere, onde le illusioni si partirono ratte dai miei occhi e il mio cuore di fervente cristiano ricevette la corona di spine. Quella che sempre avevo creduto la vera città di Dio, si mostrò per quel che era realmente: nulla più ch’una novella Babilonia, una seconda Sodoma, un’empia Magoga. Quivi non regnavano concordia, pace, giustizia alcune, nessun amor di Dio né tema alcuna per la sua ira: a farvi da padroni, ahimè, erano invece il latrocinio, la simonia, la lascivia, la dissolutezza, l’inganno, il tradimento e l’omicidio, di cui si macchiavano laici e chierici insieme, promiscui a mo’ di sozze fiere, in tal guisa che l’occhio non poteva ormai discerner gli uni dagli altri se non per le vesti proprie degli ordini loro.
Sommo, perverso orrore, dal miglior seme di Roma, dagl’eredi dei sommi senatori romani, che magnificamente servirono e saggiamente consigliarono i loro principi per cui Roma fu padrona del mondo intero, donde vennero sant’uomini quali Severino Boezio e il magno Gregorio pontefice, da tali virtuosi ottimati ebbe origine la più degradata delle progenie, che ha nel potere più incontrastato e arbitrario l’unico vero dio e nei forzieri d’oro e d’argento, nelle terre più vaste e ubertose, nelle torri più alte e robuste, il solo paradiso. Essi signoreggiano il Patriarchio del Laterano, eleggendosi da sé medesimi prefetti, giudici, camerari e tabelloni e offrendo in dono ai propri fedeli gli uffici più onorevoli e redditizi; si contendono il potere ordendo complotti, fomentando rapine e omicidi e sollevando tumulti, grazie ai loro armati, vassalli privi d’ogni virtù, e ai loro clienti, plebei gretti e violenti; infestano i cenobi, le pievi, le abbazie, i capitoli e i vescovati, ridotti a vacche grasse da cui i loro congiunti, i loro amici, i loro fedeli, camuffati da pii chierici e da umili servi di Dio, succhiano avidamente laute prebende, ville e corti sterminate, cavalieri e pedonaglie armate, diritti di banno, privilegi e immunità imperiali; si danno, ciascuna consorteria bramosa di primeggiare sull’altre, aspra e sempiterna battaglia, senza scrupolo alcuno nel ricorrere al più bieco dei tradimenti, al più infame agguato, alla più crudele delle faide e alla più subdola delle congiure.
Ora, la pestilenza non trova più argine alcuno e tante, troppe anime strazia, senza risparmiarne niuna: dal chierico più infimo al vescovo, all’arcivescovo, al cardinale; fino, ahimè, al papa. Aspre lacrime m’offuscano la vista, e chiunque leggerà questa cronica, la crederà scritta da un infermo o da un folle, tanto trema la mano che guida la penna! Non più da Dio egli, ahimè, è eletto, ma dai grandi nobili romani, perché realizzi i loro biechi e frodolenti piani: usurpare il Sacro Soglio per divenire i più grandi e potenti dei sovrani terreni, spacciarsi per messi di Dio in terra e fondare così l’impero di Lucifero!
Al tempo ch’io in Roma dimorava, l’aspra contesa opponeva due conventicole capeggiate dai più potenti magnati dell’Urbe: una s’affidava agli strapotenti duchi di Spoleto, i cui domini, contigui al Patrimonio di Pietro, ben potevano offrir protezione al potere pontificio contro la rinnovata minaccia dei basilei di Bisanzio e contro le incursioni dei moreschi; l’altra si legava ai sovrani d’oltralpe, poiché essi, una volta prestato l’aiuto richiesto, bisognavano poscia di ritornare nei loro regni, non potendo sindacar così troppo a lungo sull’operato dei pontefici, né influenzare i decreti e l’azioni loro. Di quest’ultima setta era partigiano Formoso papa; anch’egli, scoprii ben presto, di cuore vile e di spirito infido e frodolento: reo, ancora vescovo, di aver congiurato contro papa Giovanni VIII, per la quale colpa fuggì da Roma venendo poi in concilio deposto e scomunicato, e d’esser spergiuro, allorché, chiesto e ottenuto il perdono del detto papa e ricomunicato in cambio della rinuncia al vescovato di Porto e della promessa di più mai rientrare in Roma, ricuperò la cattedra di presule grazie a Marino, di Giovanni successore.
Ma nessuno, per grazia di Dio, foss’anche l’uomo dal cuore più santo e puro, sfugge al suo destino. E poscia ch’ebbe udite le meste novelle circa il morbo che aveva fatto di ghiaccio le membra del mio re impedendogli di annientare gli spoletini e costringendolo a un miserando ritorno in patria, ben poco valse a Formoso, funestato dalla malattia già pria che Arnulf corresse in suo aiuto, l’essere papa: tosto peggiorò e si ridusse, stremato, sul letto del commiato. Addì 4 aprile dell’anno del Signore 896, infine, colui che, come tanti altri prima, si era creduto il più potente dei sovrani, spirava come il più misero degli infermi.
Trascorsero pochi giorni, e fu subito chiaro che l’ordine e la pace testé vigenti in Roma non eran certo opera di Farold, forte delle truppe imperiali, ma dell’ennesima frode degli ottimati romani, con che spinsero il rettore imperiale a credere di aver ridotto i romani alla più cieca obbedienza. Sepolto Formoso con i dovuti onori, subito costoro, insieme ai vescovi delle chiese cardinali, agli alti magistrati del Patriarchio, agli abati dei grandi cenobi del Patrimonio, si affrettarono a riunirsi in sinodo per decidere chi dovesse essere fatto nuovo pontefice per investitura popolare. In essa Farold doveva assurgere a supremo arbitro, coadiuvato dai cavalieri e dai fanti germanici, affinché la scelta ricadesse, finalmente, su un personaggio degno di succedere al Santo Pietro. Ma ferrea e implacabile si rivelò l’opposizione del clero e del notabilato romano, più che mai diffidenti e sospettosi nei confronti del governatore forestiero, però ch’essi consideravano ormai sfacciatamente il Soglio di Pietro come cosa lor propria, quasi fosse regalia o retaggio. E quando, stanco della sorda e indolente opposizione, Farold minacciò di abbatterla con la forza nel caso la dieta non avesse rispettato la volontà dell’imperatore che per lui si palesava, sospetto e diffidenza si mutarono nell’odio più feroce, immondo fuoco su cui soffiavano nuovamente gli spoletini, cui adesso anche i partigiani del mio re giuravano fedeltà con ontoso e vile voltafaccia, ché adesso nessuno, per i tronfi romani, doveva intromettersi nell’elezione del loro nuovo, diabolico capo, mascherato da messo angelico.
Addì 11 aprile, Farold, noi altri cavalieri e i fanti della guardia imperiale, di ritorno ai nostri alloggiamenti dall’ennesimo, infruttuoso concilio con i maggiorenti e gli alti prelati romani, venimmo affrontati e aggrediti da una folla inferocita, da cui, come da trabocchi, si partiva una pioggia di ciottoli, ova marce, chiodi e cocci acuminati: mai, in tutta la mia vita, ebbi a mirar un tale mare d’uomini, donne, vegliardi e persino fanciulli in tenera etate, enfio e strepitante come fosse in ria tempesta, travolgere strade e piazze, tanto che pareva dovesse abbattere gli avitazi, le botteghe, le chiese e financo le magioni nobiliari, le cui pareti a stento ne contenevano i folli marosi. Sbracciava quella moltitudine indemoniata, e scagliavaci addosso quanto poteva, si dimenava, e nel suo rustico, plebeo idioma starnazzava: «Lo papa ène de li romani, non de li totischi!», «A morte Arnulfo lo tiranno tradetore!», «Viva Lamberto, lo solo ‘mperatore de’romani!».
Quando i nostri fanti si provarono a domare colle spade quei diavoli, ché molti erano armati di roncaglie, falcetti, forconi e coltellacci, e molti n’uccisero, tosto sentimmo scampanare dalle torri dei maggiorenti, e un trambusto come di terratremulo scosse l’Urbe e ammansì la stessa plebaglia inferocita, che vedemmo d’un tratto confusamente partirsi, come il mar Morto ebbe a fare innanzi a Mosè, e frotte di cavalieri guatarla e lanciarsi contra le schiere nostre. Frattanto, altre milizie giunsero dalle castella che i laidi principi romani possedevano nel contado per dar manforte a quanti avevano già attaccato i nostri accampamenti presso le mura di Aureliano e i ponti tiberini: presto, al clangore di spade, mazze e pavesi, s’aggiunse ratto lo sfrigolar delle fiamme, e l’orizzonte fu corso dal baluginio rossastro del fuoco, mentre l’aere s’adombrava cupamente al velo d’una densa coltre di fumo nero: chi non morì a ghiado, perì arso vivo o nei tremendi fumi; chi cercò scampo, dandosi alla fuga e domandando asilo a quelli che, tra i patrizi romani, ancora serbavano la saggezza e la temperanza dei loro avi e s’erano rifiutati di lordarsi le mani col sommo sacrilegio, n’ebbe il peggior destino: però ch’essi, per tema di rappresaglia, non schiusero i loro possenti usci agli sventurati, ed essi barbaramente finirono uccisi e derubati d’ogni avere.
Non potemmo, infine, che ripiegare verso il palazzo del governatore, avanzando tra i felloni a suon di spada e serrandoci a coorte onde proteggere Farold. Ma per poco ancora; ché, vedendoci batter l’ingloriosa ritirata, quella fiera e bellicosa moltitudine man mano si chetò, e così pure i militi che l’affiancavano, potendo così Farold e i suoi uomini riparare nel forte.
S’appressava lo vespero, e bruciava ancora l’onta della disfatta sul volto del governatore, stravolto dagli spasmi dell’ira, gli occhi di fuori come fosse uscito di senno, l’usbergo ancora in dosso, urlante a guisa di fiera fedita dal bracconiere, e nel mentre davasi, con ampie e leste falcate, a consumare l’ammattonato della sala grande, rampognando i suoi sergenti e sputando improperi contro il popolo romano tutto, rotto più di ciascun altro ad ogni sorta di inganno, di tradimento, di crudeltà, incapace di credere a quanto gl’era occorso, che s’udirono le campane dell’Urbe esser percosse con fragore assordante di bombarda per che tutti sobbalzammo, e subito appresso una folla festante schiamazzare: «Viva Bonifazio, lo papa novo!».
Il senato, il clero e il popolo di Roma avevano, dunque, eletto il nuovo pontefice e celebrato, così, l’onta miserrima inflitta al nostro re Arnulf, a Farold suo vicario, a noi tutti. Volle nomarsi Bonifazio: non più ch’un vile grassatore d’inverecondi costumi, ch’il padre, Adriano vescovo, ottimate di famiglia romana potente e illustre, barattiere, vizioso e simoniaco della peggior fatta, aveva fatto presbitero e che, per due fiate deposto e rimesso in laicato con decreto papale per molti e gravi peccati e delitti, fu infine rifatto chierico. Cosa per cui l’Onnipotente lesto palesò la sua collera: il nuovo papa non durò che dì quindici, stroncato da morbo.
Ma nulla poteva oramai Farold, che la sera stessa dell’elezione di Bonifazio ricevette la visita di taluni alti funzionari del Patriarchio e dei loro drappelli di militi, i quali, emissari dei tracotanti principi romani, vennero a riferire che meste novelle giungevano di Germania, ove già quanti tra principi, conti e signorotti bramavano detronizzare Arnulf, restituito alla vita ma di poca salute e però impedito nel ben governare e saldamente tenere il regno suo, si procacciavan fedeli in armi e davansi battaglia gl’un gl’altri acciò mostrare ai grandi elettori del regno chi fra loro fosse più degno a detener l’imperio, e che vano sarebbe stato allora inviar dispacci lassù per dimandar rinforzi, ché i militi avevano già troppo da pugnare in casa loro; che Berengario marchese del Friuli, già re d’Italia e che pure illo tempore aveva giurato ad Arnulf fedeltà e aiuto contro lo spoletino Guido, si faceva forte della debolezza del mio re e si dava a rinovellar patti di fedeltà coi suoi vassalli, a fomentar sommosse in Langobardia contro l’imperatore e i suoi duchi, a cercare l’appoggio di Lamberto con la promessa d’una italica diarchia; che gli spoletini, perseverando Farold nell’intento bellicoso, marciato avrebbero di nuovo su Roma e, trovandola poco difesa qual era di fatto, l’avrebbero tosto presa e volentieri rasa al suolo com’ella, a suo tempo, aveva fatto con Cartagine, e che Lamberto, rifatto imperatore per papa di parte spoletina, niuno dei militi tedeschi, men che meno Farold medesimo, avrebbe lasciato sortir vivo dalle mura d’Aureliano.
Ben poco, da quel dì innanzi, poté più Farold in Roma, governatore de iure ma non più de facto; e quando i grandi della cittade si riunirono in parlamento onde fare il papa nuovo, egli non poté dimandare altro che fosse uomo autorevole, un ottimate, che salde e fonde radici avesse in Roma e nel Patriarchio nonché amicizie tra i maggiorenti e i curiali spoletini, per che avrebbe potuto tener la cittade quieta, placando così gl’animi dei più tracotanti dei faziosi, che, troppo lesto a spirar Bonifazio, attendevano alla nova elezione papale per far grande e trista vendetta dei partigiani di Formoso.
Avvenne così che, dipresso all’idi di maggio, fu fatto papa Stefano, che fu il sesto dei pontefici che tal volle nomarsi, di nobile e potente casata nonché vescovo d’Anagnia. Egli seppe tener quieti gli spoletini più superbi e iracondi e loro masnade romane, molti ammansendone con uffici laicali e cariche ecclesiali. Ma di quanti, fra quei di parte avversa, più aveva tema papa Stefano che contra lui e i suoi romori e rubellamenti e vendette scatenassero, pochi sfuggirono alle carceri, alla mannaia del boia e agli assassini al soldo di romana chiesa: taluni perirono d’inedia da sórici manducati, costretti in oscura e fredda prigionia; talaltri presi per inganno e tradimento o morti per agguato. Tal della pace fu l’orrido prezzo.
Invano, Farold tentò di dirizzare la malaiustizia per il suo sommo ufficio: ché i felloni officiali romani, se in pubblica assise solenne atto d’omaggio porgevangli quale vicario imperiale e i comandamenti suoi dichiaravano voler in tutto seguitare, ai loro patroni solamente, i nobili di parte spoletina, prestavan docili l’orecchie e l’intenzioni. A ben poco servì al governatore inviar dispacci in gran segreto all’imperatore invocando aiuto: costui era debole e Ludovico, suo unico erede, in troppa tenerezza d’etade per ben governare e tener testa ai lupi che, nell’ombra, già tramavano per farne un re fantasma, donde i grandi del regno, temendo la rovina, s’apprestavano a scegliere colui che ad Arnulf sarebbe succeduto, e duchi, conti e marchesi, venuta meno la briglia imperiale, seguitavano a pugnar fra loro, adducendo vecchie dispute, antiche rivendicazioni, vendette mai sopite, onde saziarsi degl’altrui averi, farsi più grandi e potenti e parer così, agli occhi degl’elettori, ciascuno il più degno tra i candidati alla corona; era d’uopo, acciò, che i militi fedeli al mio re restassero entro i confini del regno e difendessero l’autorità che Dio Onnipotente gli aveva conferito.
Fu a tal cagione che lo stesso Farold, ormai poco più che l’ombra del suo potere, fu infine richiamato in Germania corrente il mese di giugno, e con lui gran parte dei cavalieri e dei fanti discesi in Italia al seguito di Arnulf, non pria d’aver ottenuto, per intercessione di taluni grandi nobili di Tuscia e di Langobardia, promessa solenne di salvacondotto, con che solo poteva scampare all’attacchi di Berengario marchese. Dei tanti che in Roma erano giunti, niuno infine vi restò, ché il potere degli spoletini, dei nobili e del papa loro amico non aveva ormai argine alcuno per liberamente dilagare e travolgere chiunque avesse osato opporvisi; e taluni, che Farold volle lasciare presso la cittade perché riferissero ai cancellieri di Arnulf dei futuri accadimenti romani, non più entro le mura d’Aureliano ordinò che dimorassero per scampar insidie, bensì nel contado del Patrimonio, accolti e protetti da castellani e signori a costui fedeli. Tra essi, vi fui anch’io; ché l’imperatore ben sapeva quanto abile fossi nello scrivere in bello stile, dacché ebbi da Farold l’incarico di vergar missive con che il re nostro avrebbe potuto, seppur così di lontano, vegliare su Roma e su quanto in essa accadeva e attendere all’ora propizia dell’agognata rivalsa.
Tale fu l’ontoso epilogo dell’avventura nostra in Roma: indi discesi come pacieri e liberatori del romano pontefice, ne sortivamo a guisa delli peiori nimici di Santa Chiesa, scacciati come barbari, come eretici. Ma però gl’eretici erano loro! I nobili e loro consorti e sgherri, i diaconi, i presbiteri, i preti, i vescovi! E tutti adoravano Belzebù, ch’in veste pomposa di papa sedeva sul trono di Pietro!
Così affranto, presi dimora presso un castello sui monti Pellestrini per che il nobile Uguccione, fedele al mio re, signoreggiava le terre d’intorno, con loro villici e servi. Ivi, nell’adempiere ai doveri che m’eran comandati dal signor mio, potei ripigliar dimestichezza nello scrivere, nonché nello leiere pure; ché nella cammora ove albergavo mi fuoro condotti molti e belli e preziosi volumi: la Santa Bibbia, i Vangeli, i dottori di Santa Chiesa, le vite di sant’uomini quali Antonio, Patrizio, Colombano, Benedetto, e le dissertazioni dei teologi e dei filosofi più sapienti e autorevoli. Oh, quanto conforto n’ebbi, oltreché pianto! Ché se Dio Onnipotente in loro ebbe solido e sempiterno avitazio, da Roma, ove più era lecito che sorgesse la città celeste, Costui veniva ora bandito come il più misero degl’erranti per mano del suo stesso vicario! Dov’era la santità di Silvestro papa, che a Costantino impose umilmente la corona imperiale, così significando ch’al sovrano spettasse il potere di Cesare sulle cose terrene, al sovrano solo, non al papa? E dove quella del magno Leone pontefice, che per sola possa di prieghi fermò Attila flagellum dei sul Mincio? Di tal somma virtù, nulla restava?
Puranco m’allietava, in quel tempo, l’andarmene sovente cavalcando per l’irte selve di quegl’aspri monti, ché per esse rare accadeva di imbattersi nei consimili miei, dai quali, per i fatti testé narrati, anelavo vieppiù slontanarmi. Accadde così che, nel mezzo d’una delle dette sortite, presso un ruscello, scorsi un vegliardo che, solingo, genuflesso e curvo nell’erba, le mani giunte e l’occhi al cielo, si diffondeva in silente e compunta preghiera. Quando l’ebbe terminata e, tornato eretto, si volse e mi vide, dissemi: «Pax tecum, equite», ed io: «Et cum spirito tuo, patre», chinando il capo umilmente, ché compresi costui essere un santo monaco romito. E ritenendo ch’ormai la romana chiesa sprofondata s’era nelle bolge infernali, e che i preti e i chierici suoi s’erano mutati in dimonii, forte avvertii il bisogno di confessare i miei peccati a costui, che in nome di Dio aveva rinunziato alla vanagloria e agl’agi terreni, e involtosi nell’umile tonaca si ricettava ora nella fredda e umida roccia e contentavasi del selvaggio cibo, e che solo, dunque, poteva servire a quel santissimo uffizio. Così, smontato il palafreno, dimandai che mi assolvesse dalle colpe mondane; a che costui assentì, quare inginocchiommi e, compunto e sospiroso, mi diedi a purgar l’anima da peccati. «Cum Deo vade, fili mi», salutommi; e la canuta barba inargentò un sorriso.
Da allora, per più fiate ritornai alla spelonca del sant’uomo, ché, pur essendo romito, pareva giovargli discorrer meco; e io, per parte mia, nella sua compagnia l’anima facevo più leggiadra e gentile che pria, imperocché egli era saggio, virtuoso, colto assai, puro di spirito e di sommo intelletto, e di sua persona, per sparuta e ranca che fosse, si discioglieva la luce del Sommo Bene. Seppi così ch’era stato cenobita appo Subiaco, nel monasterio che il Santissimo Benedetto aveva edificato al tempo suo, ma che, venuto in aspra tenzone con i monaci di quella badia, fattasi troppo ricca d’oro, d’argento, di terre, di prebende e d’altre cose mondane, da cui essi vieppiù avvezzi a trar sollazzo contro le leggi di Dio Onnipotente si mostravano e contra la stessa regola del padre Benedetto, quello stesso monasterio aveva abbandonato, preferendo seguitar l’orme di quel santo anacoreta.
Allora lasciai ogni timore, avvegnaché essendo monaco e però figlio di romana Chiesa, ben avrebbe potuto rampognarmi per quanto intendevo dire: e così dissi che l’immondo esempio di sua badia seguitava ora la Chiesa di Roma medesima, nonché i prelati suoi e, ahimè, puranco il papa; ch’essa, da città di Dio, s’era mutata nella magione di Lucifero; che, se luce v’era, capace di mover l’anime dei chierici e dei nobili romani loro paladini, essa non era quella di Dio, ma dell’oro e dei preziosi, del potere terreno; che in essa si compivano i più gravi peccati e i più atroci crimini per mano di quanti tali misfatti avrebbero dovuto combattere ed estirpare; e che io stesso, ahi lasso!, m’ero vilmente fatto, per comando di Arnulf, partigiano dell’empia pugna che affogava Roma nel sangue e nella perdizione. Ma niun rimbrotto, con somma meraviglia, uscì di sue labbia; bensì voce amorosa di padre, che il figlioletto intende consolare: «Ben dici tu, figlio mio, dello stato di Roma, che per rinovellar in essa Somma Virtute, d’uopo sarebbe ch’al suolo rasa venisse e poi daccapo rifatta nuova. Ma non tarderà di molto ancora il tempo della nemesi: tanti fuoro coloro che intrapresero solitario e periglioso cammino verso la verace Chiesa, la mendace rinnegando, e ancor più saranno quei che poscia verranno. Inesorabile, il millesimo anno s’appresta. Niuno, che sia re, imperatore o papa, scamperà al giudizio dell’Onnipotente, e la romana Chiesa, che povera nacque, tale tornerà ad essere pria di sprofondare nelle tenebre dell’inferno».
Venne frattanto il verno, che il creato ubertoso e variopinto tutto ancide; e con esso la novella, per gl’ambasciatori nostri, che il pontefice s’apparecchiava a far gran sinodo in Roma onde render nullo quanto Formoso aveva disposto e ordinato nel pontificato suo e sradicare in tal guisa la sua setta, che lunghe e profonde radici ancora conservava nel governo della Chiesa, dell’Urbe, dei domini papali: l’ordinazioni dei vescovi e degli altri chierici, le prebende e i privilegi, i decreti, gl’interdetti e le scomuniche; e puranche la dignità imperiale, che re Arnulf avrebbe così perduto. Qual tracotanza, qual vanagloria movevano il nuovo pontefice, ché si credeva aver tanto potere da disporre persino d’una santa corona, qual era quella del mio re! Quali accuse, poi, avrebbe mosso contra il defunto papa, tanto turpi e nefande da valere a tal bieca bisogna e che, in primis e ante omnia, non potessero essere rivolte, similmente ch’a Formoso, alla sua stessa persona e ai suoi partigiani, che pure il Soglio di Pietro svendevano ai maggiorenti romani e ai loro alleati spoletini? E come infine, se Formoso era ormai passato di questa vita, avrebbe costui potuto subire simil processo e difendersi dalle accuse degli avversari suoi?
L’orrendo responso l’ebbi nel III giorno dalle idi di gennaio del corrente anno, die nel quale fu fissato per papa Stefano il detto sinodo e datane per tempo notizia ai vescovi, agli abati e ai nobili del Patrimonio e dell’altre province d’intorno, allorché, ancora fitte le tenebre, cavalcai appo Roma a fianco del mio nobile protettore e della sua scorta di fidi bellatori. Giungemmo in Laterano ai primi chiarori di quel mattino color del piombo, e facemmo non poca fatica ad aprirci una breccia nella folla ch’aveva coverta per intiero la grande piazza antistante il santo edificio, nel quale doveva tenersi il solenne dibattimento.
Mio Dio, dammi la forza di riandare con la mente all’orrore cui ebbi la sventura d’assistere quando, varcata la Sacra Soglia e attraversato il lungo colonnato di pietra fino ai primi banchi, vidi ciò che mai avrei voluto vedere. Assise su d’un seggio adornato d’auro, argento e pietre preziose, eran composte l’orride spoglie del defunto Formoso, per l’atroce occaso estumulate dal sepolcro, coverte d’abiti pomposi e di ricchi addobbi qual si convenivano al vicario di Cristo in terra. Giammai obbliar potrò quel volto. Sfigurato dalla morte. Tarlato dai vermini della corruzione. Senza neanche più l’ombra della carne. La pelle, rinsecchita, grinzosa, coriacea, aveva la tinta opaca e smorta della cartapecora. Tanto era tesa sulla calva che pareva dovesse repente stracciarsi e lassarla nuda. Nemmai potrò obbliare le immonde, atre spelonche in cui la morte aveva mutato gli occhi e la bocca del disgraziato, la quale, consunte le labbia, lasciava ignudi i denti oblunghi e giallastri, quasi il morto li scoprisse vulgarmente a ghignare, a mo’ di ciuco quando raglia. Né potrò mai scacciare dalla mia mente come quell’orrido sembiante di morte volesse parer vivo, ché barba e capelli ancora l’agghindavano e anzi avevano seguitato a crescervi tutt’intorno post mortem.
Dipresso la salma stava l’assise dei vescovi chiamati ad assistere a quell’empia farsa. Un giudice palatino accusava il morto. Un diacono, ch’aveva il suo pulpito canto il defunto papa, prestavagli voce e rispondeva alle accuse; e nel mentre serviva a tale orribile compito, tanto lo soverchiavano il terrore e il riprezzo che greve e tremula aveva la favella e ranca, il guardo stralunato, e mai osava menarlo fino a incontrare la salma. Povero sventurato! Costretto a confessare le colpe che a Formoso gli inimici suoi vollero addossare: ch’era rientrato in Roma e aveva ricuperato il vescovato di Porto contravvenendo così alle proibizioni di papa Giovanni VIII per decreto del successore Marino, della medesma setta di Formoso, e che quell’episcopio aveva conservato allorché era asceso al Soglio di Pietro, per che fu dichiarato frodolento, spergiuro e infine scomunicato, imperocché era stato riammesso fra i cristiani dal detto papa Giovanni pel giuramento che dinanzi a costui solennemente aveva pronunciato di osservare le prescrizioni del pontefice, cosa che poi non ebbe a fare.
Per le suddette accuse, il defunto Formoso fu infine dall’assise dei vescovi, per voce del giudice del Patriarchio, deposto e suoi atti e suoi decreti tutti, dal primo all’ultimo, annullati. Allora, un giustiziere raggiunse la salma, afferrò la mano destra del morto, l’adagiò sul braccio del seggio e, sguainato uno stocco, ne mozzò via le prime tre dita, che i chierici adoprano nel benedire. Poi le raccolse da terra e, tenendole sulla palma della mano, ne fece mostra alla platea. Frattanto, l’esecrata salma venne spogliata dei fini vestimenti e dei pomposi addobbi che l’avevano testé adornata, per che restò, infine, coverta solo d’una misera casacca. Fu infine condotta su una delle logge che s’affacciavano all’esterno e, come fosse non più che cencio vecchio, gettato di giuso, nella folla strepitante, afforosa, aizzata ad arte dai bannitori di parte spoletina, ch’al turpe e vile popolazzo aveva delegato sua scellerata vendetta. Com’ebber per le mani il povero corpo, strattonaronlo, percosserlo, strascinaronlo nella polve, e tutti, uomini e donne, fanciulli e vegliardi, al macabro giuoco prendevano parte, esmesurato branco di sciacalli che facevano aspra tenzone e fiera per guadagnar ciascuno un brandello di carogna.
Me ne sortii da quel loco sconsacrato dal sommo male che v’aveva avuto albergo lagrimando come fanciullo spaurito, ché più della rabbia e dello sdegno poté il dolore. Montato il palafreno, tirai diritto, e non mi volsi indietro, a rimirar lo scempio che la turba scalmanata andava facendo frattanto delle misere spoglie del defunto pontefice, però che pensava che quelle altro non eran che i poveri resti di Santa Romana Chiesa: un corpo senza più vita, senza più spirito, consunto dal peccato, straziato dai suoi stessi fedeli, cristiani nel nome ma più che mai pagani; ché quanto testé avevo veduto accadere nella più santa delle cittadi non era che retaggio della peior pagania, la quale ai romani antichi la luce dell’Onnipotente celando, empi e scellerati li ebbe a fare, al punto che di taluni imperatori deposti e morti, quali fuoro Vitellio o Commodo, strascinorno i cadaveri per le strade di Roma e ne fecero orrido scempio.
Giunto infine, appo vespero, presso il castello del fido e liberale Uguccione, tosto mi recai nella picciola cappella della fortezza e, genuflesso innanzi la grande croce dell’altare, restai, tacito e compunto, in dolente preghiera, ché null’altro avevo a pensare poscia l’orrore di cui ero stato testimonio.
O Dio Onnipotente, che per tuo figlio, Cristo Redentore, ci purificasti dal peccato e ci strappasti agli artigli del Maligno; o Signore Benedetto, che donasti a Pietro apostolo le chiavi del Tuo regno in terra e lo facesti Primo Pontefice; perché Roma, dove egli morì crocefisso sossopra e, in nome di tanto sacrifizio, edificasti il trono dei vicari tuoi, soccombe alla tentazione e al peccato, i quali albergano proprio nelle più santa delle basiliche, nel più virtuoso dei palazzi, nelle anime di coloro che avrebbero a portare la croce e il cilicio?
Dannati in eterno siano i figli del Pio Ludovico, che commisero il più nefando dei sacrilegi: spartirsi l’Impero, che Dio Onnipotente volle uno e indivisibile perché fosse tanto forte da difendere la sua Chiesa, come una volgare ciotola di minestra! Finché l’Imperatore fu il più grande tra i grandi, poté impedire che il demonio invadesse la Santa Sede e v’insediasse i suoi ministri: così, a suo tempo, fece il Magnifico Carlo allorché i maledetti nobili romani, dalle cui anime prave promana il malefico morbo e che già allora tentavano di impadronirsi del Sacro Soglio, si provarono infidamente a detronizzare Leone papa, prima – indicibile, perverso orrore! – accecandolo e mozzandogli la lingua, poi, quando Dio mostrò il Suo potere donandogli nuovamente la vista e la favella, con accuse mendaci in pubblica assise, il quale Carlo però, elevato in quella fiata a giudice del tribunale celeste in terra, smascherò gli empi cospiratori e trasse in salvo il detto papa, che in cambio offrì al Magno Re, suo maggior paladino, il sommo potere che fu di Costantino. Ma adesso, che la potestà imperiale è ridotta ad un misero spettro – e mi perdoni il mio re Arnulf se così dico! -, non v’è più chi possa imbrigliare i potenti dell’Urbe e ridurli all’obbedienza e alla soggezione.
E tu, Signor mio: per questo sì fieramente e cristianamente pugnasti? Per questo lasciasti il regno tuo e calasti in Roma? Per questo io, insieme a tanti altri, ti feci seguito? Tanto fu vano il sacrificio del Cristo, che si volle fare redentore degl’uomini? E la speme del Padre Suo Onnipotente di riguadagnarli così alla luce? Tutto, dunque, è perduto? E la fede mia, ché sempre, chierico o bellatore che fui, giurai di servire umilmente Santa Chiesa, l’autorità delle nobili genti essendo, come il sacerdozio, dono di Dio? Per la vile ed empia masnada dei chierici romani, ahi lasso!, pregai e pugnai dacché facoltà n’ebbi, per cosa? Per consentir loro di perseverare nel peccato, nella pagania, nel delitto, e di compierne altresì di più gravi e turpi?
Così fuoro l’urli del mio cuore fedito, rivolto alla Croce del Santo Supplizio. In ultimo, sospiroso e tremante, dimandai perdono a Nostro Signore Iddio, ché i figli suoi romani così l’avevano vilmente rinnegato, e alla Chiesa sua, che sebbene costoro avessero tramutato nel più triviale dei postriboli a forza di farla ricca e potente, Cristo aveva voluta povera e umile, libera dalle cose mondane e caduche perché fosse tutta tesa a conseguir le divine e sempiterne. Rientrai nella fortezza che s’era ormai fatto scuro e, penitente, rifiutai di sedere al desco della cena con il mio nobile albergatore e il seguito suo per salirmene solingo nella mia cammora.
E adesso, che tutto tace nella notte e il sonno m’è rubato dallo strazio che ho nel core, non posso che scrivere, al tremulo, fioco lume del cero, questa pergamena. Dimane, non appena l’aurora avrà schiarito il cielo, l’affiderò a una staffetta, perché giunga al più presto agli occhi del mio re. Poscia monterò a cavallo e me n’andrò su per i monti, in cerca di quel santo, vegliardo monaco che, per appropinquarsi a Dio, si fece umile, povero e ramingo, servo della verace Chiesa, perché mi benedica e m’infonda forza e coraggio onde ben principiare nel cammino di redenzione, di penitenza, di perfezione che ho scelto di intraprendere, il solo che conduca all’Onnipotente. Così me n’andrò: senz’arme, né denari, né destriero, vestito di stracci, al collo la croce di legno, verso il mio destino. Che Nostro Signore mi assista e mi conforti. Amen.

Salvatore Napoli

 

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