Francesco D’Arimatea – racconto di Carlo Salvoni

Francesco D’Arimatea – racconto di Carlo Salvoni

Al mio arrivo al paese, con la bestia sanguinante tra le braccia, pensavo di generare stupore, magari repulsione. Invece mi ignoravano, le madri avevano spesse corde legate al polso destro, all’altra estremità i figli, tutti maschi, arrancavano, nel vano tentativo di tener dietro all’andatura frettolosa delle adulte. Avevano tutte sguardi corrucciati rivolti a terra e seguivano direttrici imprecise, che non mi sapevo spiegare. Non mi guardavano, mi sfioravano senza toccarmi. I bambini gettavano occhiate verso la cosa tra le mie braccia, ogni tanto un sussulto attirava la loro attenzione, ma subito passavano oltre, trascinati via da genitrici che avevano cose importantissime da fare altrove, lontano dalle vie e dalle piazze che tuttavia erano costrette ad attraversare con i loro fardelli.
Quello non era il mio posto, non ci ero mai stato per via di un’antica rivalità con il mio villaggio che ci era imposta come un dogma indiscutibile alla nascita. Ma ero in panico e avevo vergogna.
Il sole era implacabile, nuotavo nell’umidità, la pelliccia lorda di sangue sfregava contro la mia pancia, creandomi una sensazione di disagio. Volevo porvi fine subito, e avrei anche potuto, ma la cosa si muoveva, ogni tanto vedevo le narici contrarsi, un velocissimo spasmo spingeva una zampa come una saetta nella canicola implacabile.
“Perché non muori” sussurrai imboccando un vicolo scuro. L’ombra proiettata dagli alti muri, improvvisa come il guizzo di una rana spaventata, mi gettò per qualche secondo nell’oscurità. Rosso oltre le palpebre, pallini danzanti sulla sclera. Mi fermai, terrorizzato da quel muro di buio in pieno giorno, poi sentii il mio corpo riparato dal sole dopo ore di cammino, inspirai all’unisono con la povera bestia, destinata a trascorrere i suoi ultimi minuti di vita contro il corpo glabro di un essere gigantesco e sconosciuto. Un mostro.
“Non è una domanda.” La donna era davanti a me, era già lì quando avevo biascicato il mio lamento al nulla. Si massaggiava il polso martoriato: la corda aveva lasciato un solco profondo, nell’ombra che andava schiarendosi sembrava avere una tonalità violacea. “Solo una frase incompleta.”
La fissai a bocca aperta: i capelli cespugliosi e le strisce di luridume che scendevano dalla fronte non potevano nascondere una sfumatura bellicosa. Non era né giovane né vecchia, armoniosa nei suoi spigoli secchi. Capii solo dopo qualche minuto che si riferiva alle mie parole. “Perché non muori, io non sono libera. Perché non muori, io mi porto il tuo peso inutile.” Guardai il polso, la mano sinistra gesticolava intorno alla ferita con dolcezza, i polpastrelli diventavano bianchi per la pressione esercitata. “Anche io mi interrompo allo stesso punto. Perché non muori, dico, mentre lui sbuffa per tenere il mio passo.”
Il bambino. La corda doveva ancora essere assicurata al suo piccolo polso, l’altra estremità legata a una colonna o a un tronco robusto. Non so perché, ma allungai verso di lei l’animale ferito: il naso si muoveva ancora, i baffi ispidi spuntavano ai lati del muso, uno degli enormi denti era scheggiato in verticale. Più della coda squamosa, più delle viscere scure che spuntavano dal ventre squarciato, mi infastidiva l’asimmetria di quegli incisivi enormi, sproporzionati.
La guardò, mi scrutò negli occhi, sguardo inquisitore mentre la mano smetteva di massaggiare il polso. “Io non… io mi sono spaventato.” Mi stavo giustificando, non so perché. Quella cosa non meritava di vivere, ma dato che nel campo, con l’aiuto di una semplice zappa arrugginita, non ero riuscito a finirla con un solo colpo, mi ero sentito investito da un senso di colpa sconosciuto, avvolto nell’anima fino alla nausea. Avevo squarciato il ventre di quella cosa, un animale ributtante mai visto prima. Gli occhi indifferenti non mi imploravano, cercavano salvezza nell’oblio. E io non potevo concederglielo.
Le mani della donna si allungarono, l’indice seguì proprio la spaccatura irregolare del dente fino alla gengiva, poi si fermò sul naso che si contraeva. “È secco,” sentenziò “dovrebbe essere umido.” La mano si fermò sulla mia, le dita impastate nel pelo sanguinoso si lasciarono avvolgere: aveva una pelle liscia, come quella dei nobili che non hanno mai retto una pala, o lavato un panno, o strofinato un pavimento.

Non la seguii: mi spingeva. Avvertivo il tocco leggero sulle mie spalle, la pressione aumentava quanto dovevo svoltare, ma tutto era lieve, naturale, un gioco di polpastrelli che rilassavano come un balsamo le mie membra là dove ero rimasto contratto per ore sotto il sole. Passammo tre volte davanti allo stesso portone verde scrostato, la parte sinistra scardinata pendeva verso l’interno, lasciando uscire zaffate di tanfo animale.
La terza volta ci fermammo, la sentii cingermi i fianchi, poi se ne andò. Forse dovevo voltarmi per ringraziarla, seguirla, ma la bestia che ancora stava abbandonata tra le mie braccia ebbe un sussulto, dalla sua bocca congestionata uscì qualcosa di simile a un colpo di tosse. Mi stava dicendo che era ancora viva, era un fardello di cui mi ero fatto carico perché avevo deciso che quella vita – sconosciuta, ignobile, forse inutile – valeva qualcosa.
Quando capii che non potevo bussare, fui colto da un attimo di sconforto, come se appoggiando in terra la creatura avessi tradito lei, me stesso, il soffio vitale di tutti gli esseri che respirano. Alzai lo sguardo: era già davanti a me. Rideva. Un sorriso silenzioso senza denti, tra labbra spaccate e guance smunte, costellate da chiazze di barba irregolari. Mi fissava, rideva e annuiva, sul momento lo trovai irritante. “Che ci faccio qui?” pensai, ma non avevo ancora terminato di formulare il pensiero, che già le sue mani si stavano allungando sull’animale. Ero dove dovevo essere, percepii il tocco calloso di una pelle ruvida come corteccia, mani che del legno avevano anche il colore, con macchie di lichene tra le profonde screpolature. Senza che me ne rendessi conto, la sfilò dal mio abbraccio contratto, la prese per la collottola e la lasciò penzolare davanti al suo viso. Non rideva più, la fissava negli occhi vacui e aspirava dalle labbra strette a fessura, come se potesse con quel gesto infantile assorbire tutto il dolore che la mia zappa aveva provocato. Non mi sono mai sentito così piccolo: una vescica di vergogna al cospetto del suo creatore.

Non c’era un vero e proprio interno, era piuttosto un portico con coperte legate ai pilastri che dava su un cortile nascosto alla vista. Tutto era nell’ombra creata da stracci cuciti male, pezze sovrapposte, come se in quel posto la luce avesse potuto uccidere qualcuno. C’era vita là dentro, e puzza di carogna e deiezioni. L’uomo camminava con passo felpato tra piccole dunette cupe che si muovevano a terra, ammassi di pelo e piume che strisciavano, annaspavano, ingoiavano aria nell’angoscia di trattenere una vita che voleva scappare via.
Nel momento in cui sentii qualcosa sotto la suola, percepii il sangue gelarsi in uscita dal cuore, un formicolio alle estremità mi rese insensibile al mondo e al suo rumore. Esistevo solo io, con la mia colpa. Mentre mi chinavo, sapevo già cosa aspettarmi: sotto la scarpa c’era un pulcino giallo, le morbide piume impastate alla carne che il mio peso aveva schiacciato, senza concedergli un ultimo pigolio. C’era anche altro, un brandello di stoffa bianca avvolgeva il minuscolo addome, il cadavere sapeva di melissa e sangue. Io ero il suo carnefice, la mia suola l’ultima cosa impressa nella retina. Avrei voluto piangere, ma non ci riuscivo.
Lo lasciai lì, non potevo fare più niente per lui. Il pavimento era pieno di animali sofferenti, l’uomo aveva accolto sotto il suo portico la loro agonia, aveva scelto di prolungarla, di trattenere la vita in quei corpicini martoriati che forse un tempo avevano conosciuto la gioia del placare la sete, la placida sazietà, il desiderio di riprodursi. Vite, nient’altro.
I panni lasciavano trapelare poca luce che danzava tra i diversi spessori e i colori, un gioco magico copriva la sofferenza di quelle piccole creature rappezzate. Mi parve di vedere un gatto senza le zampe posteriori, dietro aveva legata una tela bianca lurida che trascinava in giro con estenuante lentezza. Un pollo senza becco agitava la testa spaesato, un foro nero al centro del muso come una voragine che ricorda al mondo la sua fragilità. Volevo scappare, ma allo stesso tempo quel groviglio di vite liminali mi teneva gli occhi legati alla condizione di quegli animali. Esistevano, respiravano, sentivano: distogliere lo sguardo, pensavo, poteva essere un peccato mortale. C’era qualcosa di più grosso in un angolo, forse una vacca. Stesa su un fianco, gonfiava l’addome come un mantice malato, uno strano sibilo veniva dal collo, come un muggito represso. Le mammelle enormi, gonfie di un orrido tumore, giacevano poco distanti dalle zampe immobili, coperte incrostate nascondevano la vista del largo ventre.
Volevo avvicinarmi, appoggiare le mie mani luride sull’ammasso malato che era stato tagliato via, ma qualcosa mi fece voltare. Era un canto, una melodia ripetitiva e malinconica che penetrava in testa. Il ritmo del mio cuore mutò, andò ad accordarsi con quella canzone che da allora non ho più smesso di pensare, ancora mi toglie il sonno e rapisce la mia attenzione quando gli altri rumori cessano e resto solo con il mio battito. Parole, suoni articolati accompagnavano quella melodia. Il vecchio cantava in una lingua sconosciuta, forse inventata da lui, una catena di suoni spezzati da consonanti che non esistono, fatte da denti che cozzano e raschi dal profondo della gola. Era chino su un tavolo, con movimenti sinuosi cuciva il ventre della mia bestia: uno spago grossolano penetrava nella carne grazie a un ago spesso quanto un chiodo, ogni foro portava con sé un grumo di carne viva, lo spago lasciava fibre nella ferita mentre alcuni meandri di intestino sporgevano tra le labbra irregolari, accostate con punti troppo lunghi. Cuciva, cantava, ogni tanto le accarezzava il capo che tentava di alzarsi. L’animale era vigile, quando era scosso da un tremito il volume del canto aumentava e l’affanno si placava all’istante, accompagnato da sbuffi di gratitudine dalle narici.
“Sei tu l’uomo che parla alle bestie, che le sa placare con parole umane?” Non so perché lo chiesi, avrei dovuto tacere e guardarlo cucire, registrare nella memoria tutti i particolari per portarmi il ricordo nella tomba. Ma le parole erano uscite così, contro la mia volontà. Quasi stentavo a riconoscere la mia voce.
Fermò il suo lavoro, lasciando l’ago a penzolare nel vuoto, si alzò e riprese il sorriso, come un discorso interrotto poco prima da faccende più urgenti. Allargò le braccia, a simulare la posa di un crocifisso. Non cantava più, il sorriso si fece convulso, colpi secchi di voce roca uscivano dalla bocca sempre più spalancata e quando le braccia furono del tutto aperte, le vidi: sue ferite bucavano i palmi da cui sprizzava sangue fresco. Al centro delle stimmate brillava qualcosa di bianco. Sembravano grossi denti scheggiati. Il sorriso divenne sempre più acuto, fin quando la bestia sdraiata sul tavolo emise un lamento. Era una nota stridula, trascinata, che sembrava un vagito artefatto di un bambino abnorme: il primo impatto col mondo, la scoperta del dolore della vita. Solo allora riprese il canto, intonato con l’ultima nota trascinata di quel lamento.

Cercavo di evitare il più possibile il luogo in cui l’avevo colpita, ma non potevo evitare la riva del fosso, proprio dove inizia la fila di gelsi. Quando ero là, mi fermavo e osavo fischiettare. Quella musica ossessiva, che non mi lasciava in pace fino alle prime luci dell’alba, si alzava di volume, attaccava per l’ennesima volta al ritmo del mio cuore che pompava sempre regolare, quasi fosse lui a tenere dietro alla musica. Allora arricciavo le labbra e lasciavo uscire l’aria: volevo vere vibrazioni, un suono che anche la sterpaglia potesse sentire. Forse, chissà, avrebbe cacciato i moscerini, acquietato i corvi, rinvigorito le erbe esauste di fine stagione. E fischiavo sì delle note, ma erano sbagliate. Cercavo di riprodurre nella realtà la musica che già migliaia di volte era risuonata nella mia testa, ma ne usciva un’altra. Leggere variazioni, attacchi sbagliati, note più brevi, intervalli che da malinconici diventavano allegri, oppure sequenze semplici che si complicavano in scale che non avevo mai sentito. Avevo una musica in testa chiara, ben definita, nota in ogni particolare. Dalle mie labbra ne usciva un’altra, quand’anche provavo a canticchiarla diventava un motivetto ogni volta diverso, che mi restava cucito addosso per pochi istanti e poi si perdeva nella nebbia di quel maledetto ritornello che il vecchio usava per placare i dolori delle bestie.
Nessuna macchia scura testimoniava il mio delitto: la bestia non c’era più, forse non c’era mai stata, l’avevo creata io solo per ucciderla e farla ricucire da quel pazzo che si carica sulle spalle le sofferenze delle vite più umili e inutili. Ma che utilità avevo io, con le scarpe che affondavano tra le zolle spoglie, alla ricerca di una nota che non riuscivo ad acchiappare e del ricordo di una bestiaccia che non ero riuscito a eliminare al primo colpo?
Mi ingannai, pensando che quella musica non era vera musica, che riprodurre le note di una stupida filastrocca è impossibile, perché cambiano ogni volta, cantate da bambini stonati, capaci solo di piangere. Ora so che non ne ero degno, né mai lo sarò. L’inno alla vita appartiene al vecchio santo, solo lui lo può intonare a fior di labbra.

Potrei dire che tornai per vedere come stava la bestia, quell’orribile roditore che avevo tentato di eliminare appena era comparso nel raggio della mia vista. Forse volevo capire perché i bambini andassero in giro legati alle madri scorbutiche, o perché non ci fossero bambine. O uomini. Nel pensiero, quando sono solo, in un posto scuro dove nessuno può vedermi, studiare le mie espressioni, i movimenti quasi impercettibili dei muscoli, posso, con cautela, essere sincero con me stesso. Volevo rivedere lei, le sue mani, il polso solitario, dal quale aveva osato staccare il frutto del suo grembo per abbandonarlo, assicurato a un tronco solido in riva a un fiume, in attesa della piena che l’autunno avrebbe portato con sé. Quelle mani lisce, da far invidia alle signore che non lavorano, non cambiano panni sporchi, non strofinano con liscivia e non conoscono le croste unte attaccate al fondo dei paioli.
Tornare in quel paese senza un animale sanguinante tra le braccia mi mise in una condizione di profondo imbarazzo: sentivo di essere sbagliato, che il mio scopo, in fondo, mi sarebbe costato la salvezza. Dalle imposte semichiuse baluginavano sguardi sinistri, carichi di odio e riprovazione, occhi grandi che sbucavano da palpebre spesse, sopracciglia minacciose, folte di peli ispidi, precocemente grigi. Non so in che modo io lo possa affermare con tanta sicurezza, ma là, oltre le coltri tirate per evitare ogni ingresso alla luce, c’erano gli uomini, quelli che prima si lasciavano trascinare con i polsi legati a una corda ruvida, che altri prima di loro avevano ricoperto con brandelli della loro pelle lacerata. Corde imbevute di sangue antico, rigide, intrise di cancrena atavica. Per strada le signore passavano come lampi scuri, seguiti da nuvolette impaurite, cuccioli terrorizzati ma anche rassegnati a diventare quegli occhi prigionieri, pronti a lanciare strali di invidia e disprezzo a ogni maschio straniero che avesse l’ardire di passeggiare libero tra le loro vie. Cercavo in ogni comparsa quel volto, che avevo visto solo una volta e forse non avrei neppure saputo riconoscere. Non riuscivo mai a soffermarmi sulle mani, eppure le potevo immaginare solo bianche, lisce oltre i polsi feriti. Mani di donne che non faticano, ma possono dirigere una vita solo con un tocco lieve sulle spalle.
In una piazza svettava una quercia magnifica. “Questo essere vive da migliaia di anni” pensai, e rabbrividii nel vedere decine di corde pendere dai suoi rami: all’estremità piccolissimi cappi sfilacciati ondeggiavano a una brezza che la mia pelle non sentiva. Fui scosso da un leggero tremito, pensavo a lei, a suo figlio abbandonato. Ma non lì, quello era un luogo comune. Il posto, pensai, dove i bambini diventavano uomini dopo un rito di passaggio atroce: spaventati, soli, impreparati a qualsiasi tipo di vita nel mondo, abbandonavano le corde per strisciare nelle case, cupe e sicure prigioni fino alla fine dei loro giorni. Per un istante ventilai l’ipotesi di appostarmi lì per assistere a uno di quei terribili momenti: avrei voluto vedere un essere debole, un parassita, essere gettato con violenza nel mondo. Ma non era quello che volevo: in fondo non sono anch’io un povero immaturo, un pusillanime pronto a massacrare un essere con una zappa, solo perché non lo conosce e non l’ha mai visto?
Lei non aveva lasciato lì il frutto del suo seno, ne ero certo: gli aveva dato una tremenda libertà lontano dal paese, un luogo selvaggio dove morire secondo natura.
Il pensiero mi balenò nella mente per una frazione di secondo: potevo essere io l’unico uomo libero, in mezzo a donne fuggenti e poveri umani ingabbiati. La prospettiva mi rese superbo: un solo istante in cui m’illusi di poter guardare Dio dritto negli occhi, prima di essere scaraventato in un tartaro freddo e inospitale per l’eternità. Poi ricordai di lui, il suo sorriso sghembo, il canto monotono che mi aveva tenuto lontano dall’abbraccio del sonno per tante notti. Quelle note tornarono a rimbalzarmi tra i ricordi, per poi farsi nitide e distinte, come se le avessi appena sentite. E fu in quel momento che capii che dovevo cercarlo ancora, sentire cosa poteva uscire dalla sua bocca oltre alla risata folle e a quella canzoncina capace di torturare. Dovevo tornare al portico scuro, casa degli animali in agonia che egli placava con la sua voce e teneva in vita con pezze lacere e aghi arrugginiti.

Quando stavo per arrendermi, chiusi gli occhi. Allora sentii le sue mani sulle spalle, i polpastrelli sapienti, come se fosse ancora lì, dietro di me, per guidarmi. Percepii anche tra le mie braccia il fardello della bestia massacrata, i suoi scatti convulsi, l’odore di sangue e selvatico. Il sogno di quella sconosciuta era sufficiente a guidarmi.
Il portone non c’era più, un’ampia apertura dava su un portico dove la luce del sole d’autunno danzava tra gli strappi: la coltre spessa era lacerata, i brandelli danzavano al vento e i raggi illuminavano a chiazze il pavimento sgombro. Non c’era nessun animale, nessun povero essere strisciante rattoppato dalle mani callose del vecchio. Il fondo era sgombro, stranamente pulito. Mi chinai a cercare i resti del pulcino che avevo spiaccicato, vidi solo terra battuta spazzata con cura maniaca, non una briciola, non un rimasuglio. Non c’era neppure una formica. La vita era altrove. Mi sentivo in qualche modo tradito dall’assenza di sofferenza: avevo bisogno di esseri disperati, aggrappati a una vita destinata comunque a svanire in breve. Forse, mi venne da credere, lui se n’era andato e li aveva portati con sé: fischiettando il suo inno alla vita li aveva indotti a seguirlo verso un giardino rigoglioso dove potessero riprendersi, o sul fondo di un fiume che avrebbe lavato via le loro sofferenze prolungate. Cercare uno scopo in quell’effimero patire non era lecito, il santo sapeva, e tanto doveva bastarmi.
La canzone, però, era ancora lì, vibrava nell’aria tiepida, tra le strisce di tessuto che resistevano ancora appese. Era un crescendo intenso e ripetitivo, una nenia che portava con sé qualcosa di funereo. Quello, ne sono ancora certo, sarebbe stato il suono che mi avrebbe accompagnato alla tomba. Forse, ascoltandolo con attenzione, non mi accorgerò del trapasso, sarà come lasciarsi ipnotizzare definitivamente da quella melodia, prima con il ritmo sempre più debole del cuore, poi senza.
Non saprei dire quanto rimasi imbambolato sotto quel portico: potevo, nella musica, sentire tutto il dolore di quelle bestie, ma anche il loro sollievo nel sentire il canto. Era come se l’essere state strappate a una morte in solitudine, avesse dato loro un valore aggiunto: qualcuno, l’ultimo dei folli scappati dalla mente di Dio, dava un peso alle loro esistenze. Prendeva quegli esseri e dava loro anche solo pochi istanti di vita. Quelle cose, sofferenze fastidiose da cancellare al più presto dalla faccia della terra, avevano conosciuto l’amore di una madre, la gioia del gioco, i morsi della fame, la pressione incontrollabile del desiderio. Avevano ospitato la vita. Un brandello di straccio, una ferita cucita male, dava loro la possibilità di non lasciare questo mondo abbandonate sulla riva di un fosso, ma riunite sotto un portico, nella comunione del dolore, la più potente e tangibile prova che la vita esiste. Mi inginocchiai nell’immaginarlo lì, davanti a me: credevo davvero che fosse il santo che predica agli animali, che anche da loro ottiene sprazzi di umanità nel nome del comune Creatore, ma poi, mentre una lacrima si affacciava timida oltre le ciglia, capii che la musica non era nella mia testa. C’era davvero, risuonava cristallina oltre le coperte, e non era lì per me.

Decine, forse centinaia di dunette allineate in un campo di erba secca e rovi. Dimensioni diverse, montagnette irregolari dalle quali partiva un bastone, un paletto grezzo che puntava al cielo. Scorticati, nodosi, sembravano le dita rinsecchite della madre terra. Alla base, qualche foglia: non erano segni di rinascita, quei pali erano stati conficcati nella terra a forza, senza bisogno di scavare buche. Erano giovani rampicanti che iniziavano la loro corsa alla vita parassitaria che si sarebbe interrotta presto, alla sommità di quei rami che, ne sono certo, erano già morti prima di finire nella terra. Fissando quelle foglie, ho capito che il vecchio non era il santo pazzo che parla agli animali. Era il pietoso che si occupa delle povere spoglie, colui che dà una casa dignitosa a chi è destinato a lasciare la propria carcassa come pasto di corvi e vermi. I vermi arriveranno comunque, ma quelle dunette irregolari, quel paletto che punta al cielo, sono una celebrazione. Ripenso alla sua bocca sdentata, a quel sorriso che mi aveva ghiacciato le ginocchia: è un gigante di santità. Nel suo onorare la morte, c’è la più alta lode possibile della vita. Egli non esalta lo spirito, ma santifica il corpo, quel fascio di umori e fibre mollicce che ci fa sentire, soffrire e amare. Ripenso alla mia bestia, ai suoi occhi indifferenti mentre affondavo il taglio della zappa sulle viscere. Il suo sangue sulle mie mani è l’unica cosa che potrà, forse, redimermi.
Non potevo pensarla in piedi ondeggiare sghemba, le budella che spingevano oltre la cucitura sbagliata. Da qualche parte c’era anche la dunetta della mia creatura sbagliata. Ripensavo al muso lungo, i denti enormi, la coda liscia, squamosa. Quella bestia non esisteva, oppure era venuta al mondo solo per condurmi là, tra quelle piccole dune sepolcrali. Cercai un segno, qualcosa che mi suggerisse la sua forma sbagliata, l’aspetto orribile, un segno di quella cucitura grossolana che lasciava intravedere le viscere sporgenti tra il pelo ispido. Non la trovai: tutte, in qualche modo, erano sbagliate, deformi, grezze. E tutte le piantine in crescita si nutrivano di qualcosa di denso, carico di dolore e quindi di vita. Le carcasse, ne ero certo, erano le migliori fonti di nutrimento possibile, perché avevano conosciuto il dolore più grande, avevano avuto la benedizione di una vita che non finisce nell’abbandono, ma all’interno di uno stesso coro di lamenti, messi a tacere da un canto terribile che tutto lenisce.
La musica che placava ogni dolore era ancora là, anche se non c’era un filo di sofferenza tra quelle zolle. Accompagnava le piantine, le dirigeva lungo il fusto irregolare della loro nuova casa, rese rigogliose dalle carcasse fertili che lui, unico nell’universo, aveva onorato con degna sepoltura. Le cantanti erano perfette: vestine di pizzo, capelli spazzolati, visi rubicondi da bambolina. Tutte le bambine del paese erano là, gli occhi puntati a terra, le voci angeliche ripetevano ossessivamente quelle poche note che mi tormentano a ogni ora, invadono il mio silenzio con la potenza di cento tuoni, spingendomi sempre più spesso a guardare la terra per sognare la dunetta che un giorno ospiterà il mio corpo esausto.
Non potevo sapere da quanto cantassero, ma anche ora credo che quel canto non potrà mai smettere, saranno sostituite da altre bambine e da quel campo le melodie si alzeranno sempre verso il sole, come a creare un canale tra le cose morte sotto terra e le cose misteriose che stanno sopra il cielo. Forse, me lo ripeto spesso, lassù non c’è niente. Allora voglio pensare che sia quel canto a creare qualcosa, che i gesti di quel vecchio santo abbiano dato vita a un altrove che in qualche modo inspiegabile riguarda tutti noi. La fede è sempre esistita, il Paradiso è stato creato da un gesto umano.
Forse sarei stato là ad ascoltarle per sempre, senza accorgermi della fame e del freddo, ma non mi bastava. Mi sporsi oltre le coperte, mi aggrappai con troppa forza e la tenda crollò. Rimasi io sotto il portico, il canto cessò. E vidi centinaia di occhi fissarmi, vuoti, inespressivi come quelli della bestia che avevo assassinato. Mi guardavano in silenzio e non vedevano nulla, solo una virgola di vuoto sotto il portico della sofferenza. 

Carlo Salvoni

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