Figlie di San Giovanni – racconto di Chiara Checchini

Figlie di San Giovanni – racconto di Chiara Checchini

Con le sue braccia forti Ada spinge gli scuri. La luce dell’alba invade la stanza. Nella bacinella sul davanzale le erbe macerano a pelo d’acqua. Foglie di salvia e melissa, fiori di lavanda e rametti di rosmarino. Mancano proprio loro, i fiori gialli, Ada lo nota. Immerge le mani nel liquido profumato, si siede accanto a te e ti spruzza il viso. Tu giri la testa, scuoti i lunghi capelli ramati. Rimani aggrappata al sogno, non lo vuoi interrompere. Continui a camminare ai bordi del campo sterile, incrostato di brina. Sei sola, come sempre. Lo scialle ti avvolge le spalle. Il vapore esce dalla bocca, si sfilaccia e si unisce al bianco del cielo. Un carro trainato da un cavallo si avvicina. Tu ti irrigidisci, sgattaioli nel fosso e ti acquatti in mezzo a un tappeto di fiori gialli ghiacciati. Senti ridere e alzi lo sguardo. Le ragazze stanno in piedi e ti indicano. «Varda, el gh’aa trùaat i caciadiaavoi.»

Spalanchi gli occhi e ti metti a sedere sul letto, il volto incupito. Ada ti libera la fronte, sistema le ciocche dietro le orecchie. «Te seet tant trist» mormora. «Te purtareet di guai a nuaalter.»
Ti alzi, con gesti lenti infili la gonna sopra il camicione, leghi i capelli dietro la nuca e ti affacci alla finestra. Immergi un panno di lino nella bacinella di acqua profumata, ti strofini il volto.
Battiti nervosi fanno vibrare la porta. Ada si sistema il grembiule intorno alla vita. «Vée chi. Gh’o bisögn de te» dice.
Una contadina grinzosa entra, furtiva. Tiene in braccio una bambina, pallida e ossuta. La piccola inizia a tossire, non vuole smettere. Ada la fa sedere su una sedia sfondata. Le tasta il collo, piano. Nel pentolone d’acqua che sobbolle sul fuoco immerge una pezza di lino. La tiene per un lembo, la fa raffreddare un istante poi la stende sulla gola della bambina e aspetta che il calore penetri la pelle e arrivi dove ha origine il gonfiore. Ti fa cenno. Dalla credenza prendi la bottiglia di vetro celeste, versi in un bicchiere un dito di distillato bruno e lo appoggi sulle labbra della bambina. Aspetti che lo sorbisca, lenta. La madre tira la bocca in un accenno di sorriso, non ha niente altro da dare in cambio, lo sapete. Nella minuscola mano della bimba metti una noce fresca e le accompagni all’uscio. La donna si affaccia, scruta il viale alberato che si addentra nel pianoro. Aspetta che il carro sparisca dietro gli olmi, poi parte in fretta con la figlioletta aggrappata al collo.

Il sole è appena spuntato dal mare verde dei campi, le erbe sono turgide di rugiada. Senti cantare e sai che devi andare, devi fare in fretta o le altre ti lasceranno indietro, insieme agli ultimi fiori appassiti e alle foglie tarlate dalle lumache. Come ieri.
«Surit, incoo l’è ‘na giurnada de festa» ti dice Ada. Per te non è festa. Preferiresti startene china nei fossi a raccogliere ruta e verbena, a mungere la vacca o preparare decotti accanto al fuoco.
«Te gh’eet desmentegat i caciadiaavoi» ti avvisa Ada.
Lo sai. Ma di fiori gialli non ne hai trovati più, le altre han saccheggiato i folti cespugli lungo i campi di granoturco. “A te i te serf mia” hanno detto e sono corse via, ridendo, senza voltarsi. Le guance ti si infiammano e abbassi gli occhi. Ada ti spinge fuori. Con il paniere sottobraccio raggiungi le altre giovani, ti accodi. Nessuna ti rivolge la parola. Costeggiate i vigneti e scavalcate rogge mentre la luna nel cielo sbiadisce e il sole inizia la risalita.

Alla fonte le ragazze si fermano. Anche tu vuoi dissetarti, hai la gola secca. Sei ultima, ti lasciano indietro. Riempi le mani d’acqua e bevi. Un fruscio ti fa sobbalzare. Due occhi di brace ti fissano, inchiodano come uncini i tuoi occhi color muschio. Un uomo si avvicina. Lo riconosci, è il nuovo bracciante, un forestiero silenzioso, dai lineamenti duri. Tamponi il labbro con un lembo della veste. «Cusa vooret?» la voce ti trema. Lui sogghigna, preme il suo ventre contro il tuo. Tu lo spingi. «Va via!» Sente una vibrazione nella tua stizza, la respira e ne vuole ancora. Ti divincoli ma ti trattiene per le braccia. Ti immobilizza, posa la bocca sul tuo petto e tu trattieni il fiato, il tuo corpo va in direzione opposta alla tua volontà e in quel momento capisci troppe cose. Ti liberi e gli lanci uno sguardo di sfida. «A l’ura che fa scuur, se vedum chi» ti dice. Il suo tono è perentorio e suadente. Raggiungi il noceto correndo. La rugiada rinfresca i piedi e tu senti caldo, ti stendi sull’erba madida, ridi. Le vesti si inumidiscono, i capelli si increspano. Raccogli con i polpastrelli le gocce d’acqua sospese sui trifogli e le lasci ricadere tra le labbra.

Grida di eccitazione ti scuotono. Sospiri. Devi andare. Le tue mani sono le più abili a raccogliere le noci. Nessuna è più delicata di te, sui tuoi malli non c’è mai nemmeno un segno, il tuo distillato scuro e denso è il più dolce di tutti. E porta sollievo al respiro malato. Ti alzi e cerchi un albero carico di frutti. Ti arrampichi come un gatto, come se non avessi fatto altro per tutta la vita. I capelli ti ricadono sulle spalle, la fatica ti imperla la fronte. Sei un’animale selvatico. Le altre ti guardano e l’invidia le trasforma in malelingue. Ti metti a cavallo di un ramo e riempi la prima sporta. Il sole sta risalendo, penetra le gocce sui malli e le fa scintillare d’oro.

Passa un carretto, ricolmo della legna per i falò. Alla guida c’è il bracciante. La cavalla è lenta e lui non la sprona, ti beve con gli occhi. Lo ignori, guardi lontano verso i cascinali cariati dall’umidità. «Varda quanta legna! La sarà ‘na gran festa!» gridano le altre.

Il lungo giorno finisce e inizia la notte, chiara. La luna splende sfacciata sulla campagna punteggiata di fuochi. Le nuove coppie si prendono per mano e saltano sopra le braci fumanti mentre tutti intorno applaudono gli sposi promessi. Tutti tranne te. Nessuno ti ha chiesta, nessuno osa avvicinarsi. Le femmine come voi spaventano gli uomini perché sanno cose che loro non sanno, dice Ada. Ada, che alle feste non viene più.
Ti allontani dal fumo, dalle ragazze radiose. La testa ti gira, il cuore palpita e gli occhi lacrimano. Ti siedi accanto a un pagliaio. Aspetti che il respiro torni regolare e le guance fresche. Ne hai avuto abbastanza di vino, musica, canti, ma gli altri non sembrano sazi, continuano a fare girotondi in mezzo ai falò. La sete ti tortura la gola e senza pensare ti incammini verso la fonte.
Appoggiata al tronco di un noce vedi un’ombra. Si stacca e ti viene incontro.

Quella donnina rinsecchita e coperta di rughe non ti ispira fiducia. Ha aiutato migliaia di bambini a nascere, ma qualcosa in lei ti inquieta. L’ha mandata a chiamare Ada, Ada ci è già passata e ha aiutato altre come te. A nascondersi, ad alleviare la pena. E poi ad alleviarla ad altre.
L’infuso di belladonna ti ha calmato, le contrazioni sono diventate onde attutite, lontane. Il tuo corpo le ha assorbite come la farina assorbe l’acqua e la bambina è nata sana. Lucia, l’hai chiamata. Ha capelli folti e neri, e una voce squillante. Te la porti al seno. Lungo le tue cosce il sangue continua a scorrere, senza sosta. Gli occhi di Ada sono rossi, le guance bagnate e tu capisci. La vecchia sparge il sale sotto il letto, ti segna con il pollice, piccole croci su tutto il corpo. Ma il flusso non si arresta. Senti mancare le forze. Baci la bimba sulla fronte, posi le sue minuscole dita sulla tua bocca. Ada la prende, la avvolge in un panno di lino, la culla. «’N’altra fiola de San Juuan» mormora.

Chiara Checchini

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