La Gaiola – racconto di Francesca Coppola

"Consultando l'oracolo", John William Waterhouse, 1884.

La Gaiola – racconto di Francesca Coppola

Il Tempio della Gaiola aveva un altare tufaceo e marcature decorative romane. Sabina mi aveva raccontato di una stella al centro del pavimento, tenuta segreta in una stanza. Lì cinque suore avevano suonato lo spartito del diavolo.

“Domani te la porto a vedere” aveva detto mentre eravamo sedute sul tappeto bianco a setole lunghe nella sua camera. “Ora vorrei approfondire” ammicca e ride.
Sabina ha capelli ricci neri e gambe robuste come colline. Le incrocia e mi impongo di guardarle le labbra. “Prendiamo la tavola ouija” e so che farei, con lei, qualsiasi cosa.

“Paola che ne dici?”
“Cosa vuoi che dica”.
Lei ha questo culto per il macabro e io ho un culto per lei, penso.
È così da quando eravamo piccole. Quando aveva nove anni incastrava qualche mosca nel barattolo e agitava i fianchi insieme al vetro. A dieci si specializzò nell’amputare code di lucertola. A tredici sapeva colpire al volo i colombi, una volta caduti forzava le ali fino a romperle. Sabina tornava giorni dopo per vedere le viscere ricoperte da formiche.

“Evochiamo le suore, dai ci divertiamo!” urla in preda all’entusiasmo.

L’abito di lana aderente le sta d’incanto, lo scollo mostra la perfezione del collo mentre lo inclina, leggermente, a sinistra. Sorride.
Come faccio a dirle che sono terrorizzata?
Dal niente spunta una candela nera, sopra la quale fa cadere una pioggia di sabbia.
Quanto è bella Sabina con la matita viola che le allunga l’occhio. Il neo disegnato vicino le labbra dovrebbe essere oggetto di venerazione.

Per prendere un po’ di tempo le chiedo di raccontarmi, di nuovo, la storia o forse è solo il pretesto per vederla contorcersi dal fervore.

“Nel milleottocento circa, cinque gemelle erano state abbandonate nei pressi del Tempio. Si narra che furono ritrovate da un garzone su di una grossa foglia nelle acque antistanti l’edificio.
Erano state avvolte in metri e metri di tulle viola. Sebbene avessero non più di qualche mese, non piangevano. Se ne stavano tranquille con i pollici in bocca e gli occhi vigili.
Il tempio era abitato da sette monaci che decisero di tenerle per consacrarle, una volta cresciute, come spose del Signore.”

Sabina scatta in piedi e inizia a prendersi i capelli come per raccoglierli. Il suo corpo brucia, vedo gocce di sudore ai lati delle labbra. Cadono le maniche mentre il torace viene fuori.

A questo punto la leggenda diventa tetra.
C’è chi dice che le fanciulle erano talmente belle da aver fatto impazzire i monaci che non potendo averle, decisero di murarle vive. Un’altra ricostruzione le ricorda, comunque, morire stavolta in mare, affogate dal custode. Un tipo esile e dell’accento tedesco che giurò di averle viste compiere un rito segreto.

Ha fatto una ricerca, dice.
“Quel tempio è sicuramente maledetto”. Sfiora con il piede la mia gamba.
Il custode dichiarò di averle purificate con il Battesimo attraverso l’acqua, in quanto streghe. Fatto sta che da allora il tempio è stato teatro di accadimenti assai strani.

“Voglio portarti a vedere le panche di legno” dice. “Si racconta che lì siedano cinque figure umane avvolte da teli bianchi: non è eccitante Paola?”
Sabina si passa la lingua sulle labbra e i suoi occhi diventano viola.
“Sì, sì, certo…” le rispondo, potrebbe farmi fare qualsiasi cosa.

Mi spiega delle voci delle bambine che giocano nei giardini del Tempio ma in giro non si vede nessuno. Si siede di fronte a me e mette la candela nera fra le mie mani. Prende un po’ di sabbia e se la lascia cadere come pioggia dall’alto.

È troppo bella Sabina, penso. Non riesco a toglierle gli occhi di dosso. Vorrei toccarle i capelli e adagiarmi sul suo bacino. Non mi accorgo che la candela è stata accesa.

“Sai perché si chiama così quel tempio?”
“No”.
“La Gaiola vuol dire gabbia. Le gemelle sono ancora lì dentro e so che vogliono uscire. “Sono stata lì ieri sera e l’ho visto. Il cavaliere romano mi ha consegnato il messaggio.”
Le sue labbra toccano le mie e penso che sono in paradiso. Profumano di mosto selvatico.

“Cosa si prova a ottenere ciò che si vuole, Paola?”
Non lo so. Non riesco a alzarmi.

Lei si spoglia del tutto. Se potessi muovermi cadrei ai suoi piedi.
La sua bocca si deforma. Apre le gambe sopra di me e solo allora mi accorgo di avere le braccia distese su assi di legno.
Con il dito fa il segno della croce partendo dal mio mento.
Dai suoi capezzoli escono gocce viola.

“Non salterà mai come una rana!” dice una voce dal tono contrariato che non riconosco.
“E perché mai dovrebbe Dina?” ride un’altra.

“Brucia la gabbia Sabina”.
          “Fai fumare le viscere”.
                    “Vendica Ipazia”.
                              “Nessuna creatura più nel cassetto”.
Le sento, le voci bambine si muovono nella mia mente.

“E uno”.
Caccio la lingua per poter leccare quelle gocce.
“E due”.
Inizia una melodia suonata da un pianoforte.
“E tre”.
Sento il fuoco nella carne.
“E quattro”.
Cinque punti distinti del mio corpo avvertono gli aghi.
“E…”
Viene giù il tetto.

Francesca Coppola

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