Il cuntastorie di Alicudi – racconto di Sofia Rigoli
Redazione2025-05-12T10:09:19+02:00Sua madre diceva sempre che ogni famiglia ha le sue pecore nere, e che il mare nasconde bene le proprie. Era il caso dell’isola in cui vivevano, Alicudi, la più piccola di sette sorelle: una montagna dalla forma conica che una volta era stata un vulcano, fatta di salite e interminabili gradini.
Agostino conosceva un sacco di leggende sulle Eolie, le aveva sentite da sua madre. Si sedevano fuori portandosi dietro le sedie, dopo cena, a volte con la compagnia di qualche vicino di casa. Lui avrebbe potuto ascoltarla parlare per ore e spesso era quello che faceva. Non sapeva mai se crederci a tutti i miti, e del resto la bravura dei cuntastorie era quella: raccontarti le cose come se fossero vere, e anche se ti dicevi che era impossibile poi finivi per convincerti anche tu. In ogni caso di certo non si sarebbe mai aspettato che un giorno raccontare sarebbe toccato a lui. Però sapeva che l’isola ne aveva bisogno, soprattutto in un periodo come quello, quando gli arcudari stavano lottando con tutte le loro forze per sopravvivere alla carestia. Pescavano, piantavano ulivi e segale, mangiavano patate e facevano il pane.
Furono loro, i contadini e i pescatori, a vederle per primi. Le scorgevano al crepuscolo, quando abbandonavano i campi per tornare a casa, oppure nella notte, quando uscivano a pescare con le loro bagnarole di legno: donne che nel buio si sollevavano da terra e volavano via come le fate. Erano donne di tutti i tipi, belle e brutte, magre e grasse, vecchie e giovani. All’inizio nessuno credette a chi le aveva viste, naturalmente. Poi quelle iniziarono ad apparire sempre più spesso, a rendersi visibili a molti più occhi, e fu impossibile negarlo: ad Alicudi le donne sapevano volare. Non erano più solo i pescatori e i contadini ad avvistarle, erano i falegnami che lavoravano a cielo aperto e i lattai che bussavano porta a porta per vendere i loro prodotti; erano i facchini con i loro muli, erano a volte anche le mogli e le madri che piegate sull’orto alzavano un attimo gli occhi per chiedere una mano alla Provvidenza. A quel punto le streghe si facevano vedere anche di giorno, non si vergognavano di niente e non si spaventavano di nessuno. C’era chi raccontava di averle viste ridere, cantare o ballare in aria. Chi diceva di averle viste nude e chi giurava che lanciassero maledizioni e garantiva di averle viste con i denti digrignati sussurrare degli incantesimi. C’era anche chi riportava di averle viste spiegare le ali e trasformarsi in corvi, e chi sosteneva che durante la settimana andassero a fare la spesa in città a Palermo, planando sopra tutta la Sicilia. Quando se ne parlava ognuno aveva qualcosa da aggiungere, era ormai incontestabile che in quell’isola le donne camminassero per aria.
L’unico che non le aveva mai viste era Agostino. Era in quei momenti che si chiedeva se forse sua madre non avesse avuto ragione, se fosse vero che lui era la pecora nera non solo della sua famiglia ma dell’intera isola. Non era cambiato niente quando era cresciuto, e infatti adesso se si trovava a parlare con qualcuno delle mahare che abitavano Alicudi – e capitava piuttosto spesso, di quei tempi –, appena gli chiedevano se le avesse mai incontrate aveva paura a dire di no. Sua madre gli diceva che non aveva mai avuto una grande immaginazione, che sin da picciriddo era sempre stato pragmatico. Almeno su questo, però, si era sbagliata. Infatti Agostino aveva inventato le storie più strane su quelle streghe. La gente aspettava con ansia che ne avvistasse una solo perché potesse raccontare a tutti di quell’incontro. Lo fermavano per strada o al porto, a volte lo andavano perfino a trovare a casa. Carlo, suo cugino e vicino di campagna, addirittura si premurava di raggiungerlo nei campi a intervalli regolari, giusto per assicurarsi di non essersi perso niente.
“Oggi niente, Giovà,” gli rispondeva quasi sempre Agostino. Ogni tanto però, se aveva tempo e voglia, architettava qualche storia e la cuntava a lui e poi a tutti quelli che incontrava. Gli sembrava che più la raccontava più diventava vera, e quindi una volta iniziato non smetteva più. Non era solo il modo suggestivo in cui le descriveva ad attirare l’attenzione dei suoi compaesani, era che le streghe sembravano avercela in particolar modo con lui. Gli facevano i dispetti, smontavano il suo orto e rubavano le patate e le carote, rompevano gli infissi delle finestre di casa sua, aprivano la stalla dei muli e quelli se ne andavano a spasso per la campagna. Alicudi era un’isola di vicoli stretti e sentieri fatti di pietra lavica, era difficile non credere che potesse davvero essere magica. Agostino aveva imparato a sue spese che una volta che nasce una liggenna, uguale a quelle che gli raccontava sua madre, sopprimerla è difficile. Era diventato un cuntastorie come lei, ormai. Si immaginava le cose e poi passava il suo tempo in piazza o al porto o nelle case dei vicini a convincere tutti che non erano fantasie. La sua era un’arte, e come tutte le arti richiedeva dedizione e pazienza.
In quei giorni, pazienza gliene serviva assai. Quando non era impegnato a zappare o a costruire leggende, Agostino andava appresso a Elena, la figlia del sarto. Di lei il padre diceva che era biedda come u suli e disubbidienti come u mari, e Agostino ogni volta che la vedeva pensava che era vero. Elena non ricambiava le sue attenzioni quasi mai, ma ogni tanto gli concedeva un sorriso o una parola e quello valeva tutta l’attesa. Era più piccola di lui di almeno quindici anni, ma lo sapevano tutti che sull’isola il tempo scorreva diverso. Quando il padre era in giro a consegnare o raccogliere vestiti, Agostino sgattaiolava dentro la sartoria. Elena se ne stava dietro il bancone con la schiena dritta e lo sguardo attento a cosa succedeva fuori. Aveva un’espressione spinosa, sempre controllata, ma gli occhi buoni. Ad Agostino piaceva l’idea che un giorno sarebbe riuscito a rompere quel guscio in cui lei si chiudeva come una cozza, che sarebbe riuscito a farla sua. Era una sfida che non voleva perdere e a cui si dedicava completamente.
Anche quel giorno si era presentato alla bottega per vederla e le aveva portato dei pantaloni che usava in campagna ormai tutti bucati. Elena lo aveva visto arrivare molto prima che lui potesse mettere piede nella sartoria.
“Mio padre non c’è,” gli aveva fatto sapere dopo averlo salutato. Ma Elena non era affatto stupida. Sapeva che non era suo padre che cercava. “Posso aiutarvi in qualche modo?” Chiese, accennando con lo sguardo ai pantaloni.
“Ah, sì, sono venuto a lasciarvi questi perché sono tutti coi fori. Li uso per lavorare la terra, basta metterci qualche toppa.”
Agostino li lasciò sul bancone e aspettò che Elena gli dicesse qualcosa o gli sorridesse, ma lei non fece nessuna delle due cose.
“Ve ne occuperete voi?” Le chiese allora, sperando di riaccendere la conversazione.
“Non vedo perché no.”
“E vostro padre? È spesso impegnato?”
Lo sguardo di Elena era perso oltre la porta, e questo lo infastidiva. Voleva che guardasse lui.
“Sì. Ha troppi clienti e in qualche modo mai abbastanza travagghiu. Ho altri due fratelli piccoli, mia mamma non può lavorare e quindi lo faccio io.”
Agostino considerò quella confessione una piccola vittoria. Della vita di Elena sapeva tutto, perché nei paesi funzionava così. Però sentirla parlare era diverso, sapere che parlava con lui era diverso.
“Siete molto coraggiosa a occuparvi di tutto anche quando vostro padre non c’è.”
Elena scosse la testa, poi in silenzio ripiegò i pantaloni e li mise in una cesta dietro di lei.
“Nun è curaggiu, questo ve lo assicuro.”
“Non vi preoccupano le streghe, quando siete sola?” Le domandò allora Agostino.
“Ma no, nun mi ficiru mai nenti, a mia. Sono altre le cose che mi preoccupano.”
Agostino la guardò sorpreso. Nonostante tutte quelle testimonianze, si rifiutava ancora di credere in un’isola in cui le donne levitavano in aria come il pane lievitava nei forni.
“Ne avete mai vista una?”
“È capitato.” Elena aveva sorriso, ma non a lui, e aveva distolto lo sguardo ancora una volta. “A volte le invidio. Devono divertirsi così tanto, lassù dove nessuno le può prendere.”
Agostino sapeva che sarebbe dovuto tornare a casa, che avrebbe dovuto pensare alla terra da lavorare e ai muli da sfamare e invece non riusciva a togliersi Elena dalla testa. Era passato dal porto per vedere che novità arrivavano da oltre lo stretto, ma nessuno gli aveva detto niente. Era una giornata mite di marzo, quando ancora il clima oscillava tra quello invernale e quello primaverile. I pescherecci erano tornati quasi tutti per pranzo e tutti gli uomini erano a casa a tavola con le loro famiglie. Soltanto Agostino era solo, lui che non aveva né moglie né famiglia. Pensò che perfino le streghe non volevano avere niente a che fare con lui, se era vero che esistevano. Era arrivato al punto di cercarle anche dove sapeva che non le avrebbe trovate. Nelle notti in cui era disperato andava in spiaggia, era lì che tutti gli dicevano di averle spiate mentre ridevano e ballavano in cielo. Sperava di vederle, sperava avrebbero invitato anche lui a cantare e bere con loro. Allora sì che avrebbe avuto qualcosa di vero da raccontare, come tutti gli altri.
A un certo punto, mentre se ne stava sul molo seduto su una bitta a pensare a tutte le sue disgrazie, gli era venuto incontro suo cugino Carlo.
“Cosa è quell’espressione siddiata?” Gli aveva chiesto una volta davanti a lui.
Agostino gli aveva spiegato, controvoglia, che c’era una donna che sperava di conquistare ma che non sembrava proprio riuscirgli. Avrebbe voluto che Carlo gli desse qualche consiglio, lui che era più grande e aveva visto di più.
“Ma finiscila e levati quella faccia amminchioluta, che non ti serve a niente,” gli aveva detto suo cugino in cambio. “Di donne ce ne sono tante, sull’isola, vedi che ormai ci sono pure le streghe. E a proposito, ne hai vista qualcuna oggi?”
Agostino non lo aveva neanche guardato in faccia, ma aveva fatto no con la testa.
“Buono. Lo sai che se ne vedi una me lo devi venire a dire immediatamente, vero?”
A quel punto Agostino si girò verso il cugino, parandosi dal sole con il braccio.
“E picchì, cu si tu?”
“Non fare lo spiritoso. Devi fare attenzione, sono fatte scaltre. Se ne stanno nelle nostre case, si nascondono e aspettano che ci distraiamo. Io e gli altri stiamo organizzando dei turni per andare a cercarle.”
Agostino era curioso di sapere come le stavano cercando, queste streghe, e per un momento era stato tentato di dirgli che sarebbe venuto con lui.
“Lo sai che la moglie di Bartolo, quello che vende i surici e le monachelle giù al molo, a quanto pare è una mahara pure lei?”
Agostino non poteva credere alle parole del cugino. Si rifiutava di farlo, a dire la verità. Un conto era sostenere ci fossero delle streghe che abitavano i cieli delle Eolie, un altro era pensare che quelle streghe le vedeva e le salutava ogni giorno.
“E ne siete sicuri?”
“Certo che ne siamo sicuri,” rispose Carlo senza esitare un istante. Sua madre glielo diceva continuamente, che chi fa mmrogghi ci mette sempre qualche secondo per pensarci. “Suo marito dice che l’ha vista in cucina che faceva incantesimi, e il giorno dopo ha trovato il figlio morto nel suo letto. Sono ovunque, ormai. Sono andato a vendere il pesce a Lipari e mi cuntarono che a Palermo dicono che ci vorrebbe il Sant’Uffizio romano, e che minacciano di chiamare le autorità se le nostre donne non la smettono di stare per aria e lanciare maledizioni.”
Alla fine Agostino era stato costretto a tornare a casa, ma in campagna non ci aveva messo piede, tanto era inutile. Si era buttato sopra il materasso poggiato a terra nella sua stanza da letto umida e dalle pareti scrostate, ma non si era addormentato. Perfino da là sopra, adesso che era notte, sentiva il rumore del mare e del vento, lo scrosciare lento e ripetitivo delle onde, i rami degli ulivi che sfioravano la finestra accanto a lui. Siccome non riusciva a tenere gli occhi chiusi, era tornato a pensare a Elena. Si era stufato di aspettare, non era mai stato bravo.
“T’ha stari carmo ancora un po’,” gli diceva sua madre quando il figlio era impaziente di andare a giocare con i suoi amici e invece doveva stare appresso a suo padre in campagna, per imparare il mestiere. Il mestiere alla fine lo aveva imparato, e pure bene. Suo padre era morto pochi mesi dopo e per un sacco di anni erano rimasti solo lui e sua madre. Era stato Agostino a zappare la terra, a occuparsi degli ulivi, a fare la semina e a curare gli ortaggi prima di poterli tirare fuori dalla terra. Se non avevi pazienza, quel lavoro non lo potevi fare. Stare a guardare la terra per mesi sperando che là sotto le carote e le patate stessero crescendo sane e robuste non era roba da tutti. Però quando arrivava il momento di tirarle fuori, bitorzolute e fituse, la soddisfazione che provava gli ricordava sua madre. Adesso che non c’era più, pazienza non gliene rimaneva. Non ne vedeva il motivo, ora che lei non era lì a incoraggiarlo. Anche il cibo che cresceva nell’orto di famiglia gli serviva solo a fare soldi, e i soldi servivano a mangiare, e mangiare significava sopravvivere. Di vivere così non ne poteva più, e c’era una sola cosa che pensava avrebbe potuto tirarlo fuori da quella condizione.
Il giorno dopo si svegliò tutto sudato. Era presto ma il sole batteva già forte, e Agostino una giornata così la riconosceva subito. Pure se non era ancora estate, in quel periodo dell’anno certe volte si arrivava a trenta gradi anche quando il giorno prima aveva diluviato. L’isola aveva un equilibrio tutto suo e nessuno lo contestava.
Era un sole così forte che scioglieva i pensieri, eppure dalla testa Elena non gliela avrebbe tolta nessuno. Mentre gli altri se ne stavano all’ombra sotto gli alberi o sotto i balconi, boccheggianti come i pesci arenati sulla spiaggia dopo la marea, lui aveva sceso tutti i gradini che separavano casa sua dalla sartoria ed era andato a trovare Elena. Sapeva già cosa voleva dirle, e quando l’aveva vista aveva capito subito che lo sapeva anche lei. Quel giorno aveva i capelli legati in una treccia, i vestiti appiccicati al corpo e lo sguardo sempre lo stesso.
“Neanche il caldo vi ferma, è vero?” Lo aveva accolto.
Agostino si era avvicinato al bancone, l’aveva implorata con gli occhi di prestare attenzione solo a lui, di lasciare stare quello che succedeva là fuori.
“Io vi devo parlare, Elena. È importante, quindi vi prego di starmi a sentire.”
Ed Elena lo aveva ascoltato per davvero, di quello ne era sicuro. Lo aveva ascoltato mentre lui le spiegava che era innamorato, che davanti a quella certezza non rimaneva altro da fare. Lo aveva ascoltato quando lui le aveva promesso che si sarebbe preso cura di lei, che se la sarebbe presa a suo carico e avrebbe tolto questo peso dalle spalle di suo padre, che lei non avrebbe dovuto più fare la sarta e stare chiusa tutto il giorno in quella stanza angusta. Lo aveva ascoltato anche quando le aveva detto che il suo sorriso gli ricordava quello di sua madre, così bella e così buona.
Agostino non aveva mai pregato nessuno, neanche in chiesa, dove andava per confessarsi e finiva per chiacchierare con il sacerdote o con i fedeli. Però aveva pregato Elena. L’aveva implorata di starlo a sentire, di ragionare, per favore. Di capire che l’amore è una legge di Dio. Ma a lei non era importato. Lo aveva mandato via comunque, lo aveva rifiutato. Gli aveva detto che era troppo giovane, troppo impegnata, troppo affezionata alla famiglia. Agostino se ne era andato in silenzio, incredulo e con il cuore che si rifiutava di battere a un ritmo normale. Come era possibile che non lo avesse voluto? Chi pensava di essere, lei, la figlia di un sarto, per cacciarlo via? Le aveva offerto tutto quello che aveva, le aveva offerto cose che non aveva offerto a nessun’altra. E adesso gli toccava tornare alla sua zappa e al suo badile, da solo una volta ancora.
Mentre scalava gradino dopo gradino scansando i muli e le persone senza fermarsi, una mano gli si poggiò sulla spalla. Arrabbiato com’era, il suo primo istinto fu di spingerla via.
“Ancora arraggiato sei, cucì?”
Era Carlo, che di quei tempi sembrava non volerlo proprio lasciare in pace. Agostino stava per mandarlo a quel paese, che in quel momento non aveva alcuna voglia di sentire le sue ciance sulle streghe. Ma lui aveva insistito.
“Visto nessuna strega, oggi?”
Agostino si fermò qualche istante, nel tentativo di fabbricare per bene la sua storia.
“Sì, ne ho vista una un attimo fa!” Gli rispose. “Non ci crederai chi è.”
“Cu?” Chiese il cugino, impaziente.
“Elena, la figlia del sarto. Sembrava una ragazza così per bene, e invece è una di quelle. L’ho vista attraverso la finestra sul lato della bottega. Era messa tutta piegata su sé stessa come un gatto randagio. Aveva la bava alla bocca e gli occhi assatanati, mi ha fatto una paura che non ti immagini.”
“Hai fatto bene a dirmelo, Agostì. Vado a chiamare subito i ragazzi dei pescherecci, che prima la prendiamo meglio è per tutti. Vuoi venire?”
Ma Agostino fece un passo indietro, allontanandosi di un gradino.
“Io quella non la voglio vedere mai più. Mai più, mi hai capito?”
Carlo lo aveva salutato e di fretta si era precipitato giù, verso il porto. Agostino lo aveva guardato mentre si sbracciava per avvertire i suoi compari, e li aveva visti accendersi come segugi all’idea della caccia.
Elena l’avevano portata via che urlava come un uccello, i capelli adesso sciolti che sembravano cercare di divincolarsi nel vento insieme a lei. Lui aveva guardato da là sopra tutta la scena, e poi se ne era tornato a casa.
Il Commissario Alberto Falchetti e il suo assistente Giovanni Vergani arrivarono ad Alicudi da Palermo il giorno dopo. Furono accolti da Tindaro, uno dei contadini più vecchi dell’isola, che la conosceva meglio di tutti. Agostino si trovava lì per caso, perché era andato a cercare suo cugino. Il Commissario era sceso dalla barca senza difficoltà ed era stato il primo ad avvicinarsi a lui e presentarsi. Agostino gli aveva detto che ad Alicudi erano tutti molto preoccupati e lo aveva ringraziato per l’impegno.
“Faccio solo il mio lavoro,” lo aveva rassicurato lui. “Mi dica, lei una di queste streghe le ha viste mai?”
“Eccome se le ho viste. Ieri ne ho pure acchiappata una.”
Agostino conosceva bene lo scetticismo nello sguardo di Alberto Falchetti, lo condivideva. Per questo lo seguì in giro per l’isola come un cane che si affeziona in fretta, e anche perché tutti i suoi compari avevano detto al Commissario che non c’era nessun altro in tutta Alicudi che avesse avuto più esperienza con le mahare di lui. Così i due se ne andavano a bussare alle porte e a interrogare la gente, portandosi dietro qualche accusa ogni volta che lasciavano una casa e si preparavano alla successiva. Nel frattempo l’assistente del Commissario annotava sul taccuino le descrizioni delle streghe: erano bellissime e terrificanti, ammalianti e ripugnanti, avevano la faccia di tua moglie o di tua sorella, oppure non avevano volto alcuno. Verso metà giornata erano scesi di nuovo al porto, e avevano trovato alcuni pescatori seduti lì ad aspettarli da ore, impazienti di parlare con il Commissario.
“Le incontriamo sulla spiaggia a volte, mentre stanno ballando e bevendo. Dicono che se ti invitano a ballare con loro e tu rifiuti, ti fanno portare via dal mare. Una volta si sono portate via la mia barca, e sono stato pure fortunato,” aveva spiegato un ragazzo che non poteva avere più di vent’anni.
“E come lo sai, tu, che sono state loro?”
Agostino era stato ad ascoltare mentre il Commissario faceva le sue indagini, ma ogni tanto qualche domanda la faceva anche lui.
“Lo so perché le ho viste più di una volta, e vi dirò di più: so anche chi sono.”
Quelle parole attirarono l’attenzione di Falchetti, che sollevò di scatto la testa dal taccuino del suo assistente.
“Vi ascoltiamo”, lo incoraggiò.
“Avete presente Bartolo, no? Tu lo conoscevi, Agostino.”
Agostino sapeva bene a chi il ragazzo si riferisse. Bartolo era giovane pure lui, non aveva neanche diciassette anni quando ci fu l’incidente. Glielo avevano raccontato più e più volte cosa era successo, nel paese se ne era parlato per diversi mesi. Si era pregato assai, che lo ritrovassero. Tutti i pescherecci si erano messi in mare, le donne si erano chiuse in chiesa a pregare, ma non era servito a niente. Era un peccato, un picciotto appena adolescente, caduto a mare nella notte.
“Sì, me lo ricordo. È scivolato dal molo quando le onde erano alte e nessuno l’ha visto più.”
Il ragazzo però scosse la testa.
“Io ero lì vicino. L’ammazzaru, Agostì, fidati di me. Non è caduto pi sbagghiu.”
“Ma voi lo avete visto, chi è stato?” Intervenne allora il Commissario.
“Eravamo insieme. Ci trovavamo io, lui e qualche amico lì per bere, dopo cena. Quella sera c’era anche Maria, a figghia du scarparu, lì con le sue amiche. Poi, appena abbiamo svuotato le bottiglie, noi tutti ce ne siamo andati a casa e Bartolo è rimasto lì con lei. Manco il tempo di girarmi per andarmene per la mia strada che ho sentito un urlo, e lui non c’era più. Maria s’inniu correndo come una pazza. Io sono sicuro: la strega è lei.”
Falchetti e Vergani si guardavano ancora con fare confuso, confrontando quello che avevano scritto e scambiandosi pizzini l’un l’altro.
“E non ho capito,” disse allora il Commissario, “che c’entra questo con la tua barca affondata?”
“È stata Maria ad affondarla, è ovvio. Idda u sapìa che l’ho vista volarsene via, quando ha buttato a mare il mio amico. Vuole spaventarmi. Sarà una mahara ma è pur sempre una fìmmina, quelle fanno accussì.”
Il Commissario ringraziò il ragazzo per la sua testimonianza, ma lui non li fece andare via finché Falchetti non gli promise che avrebbe indagato sulla questione personalmente.
“E quindi cosa ne pensate di questa storia, Cummissà?” Gli aveva domandato a un certo punto Agostino, quando si erano allontanati.
“È di certo inusuale. Di cose ne ho viste tante, nella mia vita, ma donne volanti non ne avevo viste mai.”
“Ma voi ci credete?”
“Le donne che volano non esistono. E se esistono, le faremo tornare con i piedi per terra.”
Agostino aveva annuito in silenzio. Quella sera si erano messi a bere sul moletto, lui, il Commissario, Carlo e i suoi amici. Poco più lontano sedeva Elena, che non lo aveva più degnato neanche di una parola o di un’occhiata, neanche per errore. Stava guardando in alto con le mani in grembo, e Agostino sapeva che stava cercando in cielo le streghe come altri cercano le stelle cadenti. Il Commissario aveva deciso che ne avrebbe parlato con l’ispettore di Palermo e poi avrebbe deciso che fare di quelle accuse. Probabilmente ci sarebbe stato un processo, e questa questione si sarebbe risolta una volta per tutte.
Agostino era tornato a casa non troppo tardi, stanco com’era dopo aver accompagnato il Commissario in giro per tutta l’isola. Si era messo a letto pensando a sua madre, e desiderando che potesse essere lì per vedere che quello strano dopotutto non era lui. Non aveva fatto in tempo a prendere sonno che qualcuno aveva bussato alla sua porta, e Agostino sapeva già prima di alzarsi per aprirla che dietro ci avrebbe trovato suo cugino.
“Chi succiriu, adesso?”
Carlo si era infilato subito dentro casa, aveva afferrato Agostino per le spalle e lo aveva tenuto fermo lì.
“Devi ascoltarmi bene, u capisti?”, gli aveva detto. “Elena è andata a parlare con le altre mahare. La moglie di Bartolo, poi Caterina, chidda ru panificio, e tutte le altre. Stanno organizzando qualcosa contro di te, io ne sono sicuro.”
Agostino si era divincolato dalla stretta del cugino, stanco di quelle storie. A quella faccenda ci avrebbe pensato il Commissario, e forse almeno lui sarebbe riuscito a portare un po’ di civiltà in quell’isola che si comportava sempre come voleva lei.
“E tu queste cose come le sai?” Gli aveva domandato in ogni caso, chiedendosi se per Elena non fosse stato abbastanza umiliarlo in quel modo.
“Mi hanno avvertito che se ne stavano andando insieme verso casa di Elena, e così le ho seguite. Te lo giuro: l’ho visto con i miei occhi e lo sai che io bugie non ne dico.”
Agostino sapeva che Carlo non lo avrebbe lasciato tornare a dormire, e quindi lo aveva rassicurato dicendogli che gli credeva.
“Guarda che sono serio, Agostì,” aveva insistito quello. “Queste non sono cose con cui si babbìa”
“Ci penserò domani, a cosa fare con Elena.” Aveva concluso Agostino. “Tanto il Commissario ora se la porta a Palermo, quella disgraziata, e poi vediamo se si pente di avermi mandato via accussì.”
Carlo era tornato a casa sua e Agostino al suo letto, e subito si era addormentato cullato dal rumore dell’isola che si agitava.
Era stato il sole a svegliarlo, come ogni giorno. Agostino se lo sentiva, però, che c’era qualcosa di sbagliato. Allora era corso fuori, dove aveva trovato i rami dei suoi alberi di ulivo accasciati l’uno sull’altro, le piante del suo raccolto sradicate, i muli fuori dalla stalla e impegnati ad approfittare di quel disastro. Quella campagna era l’unica cosa che aveva, e una notte di vento e maledizioni aveva distrutto il lavoro di un anno intero. Subito aveva pensato alle parole del cugino la sera prima. Alicudi lo stava avvertendo, e Agostino sapeva che avrebbe fatto meglio ad ascoltare. Alle mahare non aveva mai creduto, ma neanche alle coincidenze: l’isola non lo voleva lì.
Più tardi, al molo, il Commissario e il suo assistente si stavano preparando a tornare a casa e metà isola era lì a vederli partire. C’era anche Elena, accanto al Commissario che, per quanto ne sapeva lei, rappresentava la differenza tra la salvezza e la condanna. Si scambiarono qualche parola, ma Agostino non ne sentì neanche una.
“Venite con noi,” aveva detto Falchetti prima di salire sulla barca, rivolgendosi a tutti i presenti. “Non rimanete su quest’isola dimenticata da Dio. Non avete di che mangiare, venite a Palermo con noi. Qui c’è la carestia, non ci sono gli ospedali. Rischiate di morire tutti.”
Dei compaesani di Agostino nessuno aveva accettato, tutti avevano deciso che si sarebbero aggrappati ai loro alberi di ulivo e ai loro pescherecci fino alla morte.
Lui invece non ci aveva neanche pensato, aveva seguito Alberto Falchetti con la coda tra le gambe e la testa bassa. Di quell’isola maledetta ne aveva avuto abbastanza.
“Si dovesse arrivare a quello, vi prometto che il processo sarà giusto e coscienzioso, non dovete temere,” furono le ultime parole che il Commissario rivolse a Elena. Lei aveva gli occhi di sempre, che sembravano vederti l’anima.
“Io non c’ho paura. Ci sono le streghe che mi proteggono,” aveva risposto.
Prima che tramontasse il sole il Commissario se n’era già andato via, e Agostino al seguito. Se n’era scappato senza dire niente a nessuno, ma da quella barca aveva salutato la sua casa e i suoi vicini, i suoi muli e pure quelle dannate streghe. Mentre si allontanava sempre di più aveva detto addio anche ad Alicudi, che come sempre si ammucciava tra le onde perché sapeva di nascondere un segreto.
Sofia Rigoli