Galatea – racconto di Matteo Branduardi

Galatea – racconto di Matteo Branduardi

Interea niveum mira feliciter arte
sculpsit ebur formamque dedit, qua femina nasci
nulla potest; operisque sui concepit amorem.

Metamorfosi, Ovidio


Sì, c’è stato un tempo in cui tu non esistevi. Io vivevo solo e la mia vita era già chiusa e dolorosa, senza che nessuno ne avesse colpa, nessuno, forse nemmeno io. Non c’era ragione di diventare uno scultore, se non che lo era stato mio padre e che io, passando molte ore nella sua bottega da bambino, avevo preso a imitarlo per gioco e in poco tempo ero diventato bravo, più bravo dei giovani artisti della mia isola, più bravo persino di mio padre e dei vecchi maestri. A vent’anni superavo già tutti, possedevo un talento che non avevo cercato.
Ho lasciato alle spalle tutto ciò che amavo e mi accendeva il sangue, la musica e i lunghi viaggi per mare, le scuole di filosofia e di retorica, la compagnia degli amici, ho soffocato dentro alle viscere milioni di desideri inespressi, perché avevo orrore di sprecare il mio tempo, rifiuto per tutto ciò che non potevo dominare, paura di condannarmi all’insignificanza, alla ripetizione. Per questo ho scelto di vivere per la scultura e nient’altro, sebbene la scultura io non la amassi − perché avevo la certezza di essere il migliore.

Un giorno venne in bottega un gruppo di giovani, dovevano essere soldati, o forse atleti; mio padre li aveva scelti come modelli per un altorilievo, una scena di lotta feroce tra divinità ed eroi. I clienti non chiedevano altro: battaglie, sacrifici, rapimenti erotici – persino i timpani e i frontoni dei templi non erano che un lungo susseguirsi di orrori. Io ero appena un ragazzo, aiutavo mio padre coi disegni e le matrici in argilla, insieme ideavamo i progetti che servivano da guida agli artigiani per la lavorazione del marmo.
I giovani sembravano divertiti, un po’ spaesati; a me sembrava di essere più vecchio di loro. Li vedevo spogliarsi nella luce, tra la polvere di gesso: ridevano più forte del dovuto, con qualcosa di esibito nella voce. Forse anche loro, così fieri della propria nudità, così eroici, provavano in quell’istante un improvviso pudore, una specie di brivido nel consegnarsi a qualcuno. Ricordo l’odore di ulivo dei loro corpi, l’aria densa di un fumo aspro, medicamentoso, una nebbia di alloro bruciato, di resina e sale. E mentre si scambiavano manate e spintoni e scoprivano ridendo l’avorio dei denti, io li osservavo e provavo invidia e pena.
Perché erano così orgogliosi di posare come modelli, così sicuri della loro giovinezza, del loro privilegio, della loro avvenenza, ma ignoravano che quanto noi avremmo imitato – i fasci muscolari, le giunture, le curve anatomiche – erano fatti inerti e privi di importanza, del tutto estranei e intercambiabili, come le linee del volto o le pieghe degli occhi; mentre ciò che era incorporeo ed essenziale, il divino e l’eterno, apparteneva a noi, soltanto a noi, e non a loro.

Fu mio padre a insegnarmi l’esistenza di un canone che trascende gli uomini e non li riguarda, un ordine ideale, un principio di perfezione in cui risiede la misura segreta di tutte le cose. È stato allora, io credo, che ho cominciato a perdere confidenza col mondo. Mio padre aveva perfezionato un sistema tramandato da antichi maestri egizi, un insieme complicato di misurazioni, cifre e relazioni numeriche, grazie alle quali il corpo umano poteva farsi specchio del cosmo – una compiuta perfezione di anima e corpo, proiezione matematica del ritmo e delle leggi naturali.
Aveva una scuola numerosa, da molti anni era considerato il più grande dell’isola: né i suoi allievi né gli imitatori riuscivano a riprodurre con esattezza le sue proporzioni, il principio delle sue corrispondenze rimaneva un mistero. Solo io padroneggiavo il suo codice, conoscevo il modulo e ne ricavavo ogni misura moltiplicandolo o dividendolo: per questo non permetteva a nessuno, tranne che a me, di lavorare ai suoi progetti. Io seguivo fedelmente il suo linguaggio nei lavori di bottega, ma non sapeva che dentro di me l’avevo già superato. Non mi bastava lo specchio, io volevo il cosmo – volevo andare oltre l’intelligenza umana, attingere il segreto di una bellezza al di là del vero.

Ricordo con dolore il mattino in cui mio padre vide per la prima volta una statua realizzata da me, soltanto da me, secondo il procedimento che avevo sviluppato. Era una Venere seminuda; l’avevo scolpita all’insaputa di tutti, nel cortile della casa in cui ero andato ad abitare, nel cuore della città vecchia. Avevo ventidue anni, lavoravo tutto il giorno e spesso evitavo di mangiare, perché sapevo che se mi fossi fermato un solo istante avrei sentito improvvisamente il caldo, il sudore e la stanchezza di quella giornata e di tutta la vita, soprattutto il sudore, il brivido lungo, unghiato, dei capelli bagnati sulla nuca – e allora, sdraiato sulla panchina di marmo, avrei tirato fin sopra le tempie l’ombra dell’oleandro, e un dio mi avrebbe concesso, forse, di dormire per sempre.
Per questo aspettavo che facesse buio, e appena non riuscivo più a vedere lasciavo il lavoro e mi immergevo nel frastuono, nel tumulto, mi mescolavo alla gente che sostava davanti alle porte delle friggitorie e delle taverne, nella sera fumosa che incollava ai vestiti cristalli di sale, di vino, e l’odore grasso della pelle di pesce. Non so per quanto tempo continuai così: poteva essere un anno, o forse un mese. Quando la statua fu pronta, andai a chiamare mio padre perché venisse a vederla.
Entrò nel cortile guardando per terra, come per proteggersi da una luce troppo intensa; poi alzò lo sguardo, senza dirmi nulla. Io mi ero tenuto lontano, appoggiato a una colonna. Lo vidi girare un paio di volte intorno alla statua, avvicinarsi, allontanarsi, avvicinarsi di nuovo. A un certo punto si fermò, levò un braccio stendendo la mano tra pollice e mignolo, in un gesto che gli avevo visto fare tante volte nel pulviscolo della bottega, quando misurava una coscia o un avambraccio per verificare l’esattezza di una relazione.
Ma a mezz’aria lasciò cadere la mano, si girò verso di me, distinguendomi a fatica tra le ombre del porticato – e mi sorrise soltanto. Mi accorsi solo allora che mio padre si era fatto vecchio, quasi infermo, curvato dal peso degli anni e da una vita di fatiche.
Andammo a mangiare e non parlammo di nulla; il giorno dopo venne da me e mi disse che avrebbe smesso di scolpire, perché ormai era stanco e faceva fatica persino a reggere un martello, e in fondo aveva lavorato abbastanza, fin da ragazzo non aveva fatto altro, ed era giusto che anche lui si godesse un po’ di riposo, avrei pensato io alla bottega e del resto non c’era più nulla che lui mi potesse insegnare. Mi parlò con dolcezza, come per darmi la sua benedizione – ma io sapevo di averlo ferito, sapevo che quel giorno, in un solo istante, avevo reso inutile tutta la sua vita. E compresi allora che cos’è la bellezza: qualcosa di gelido come una lama, una trafittura insostenibile, accecante, crudele.

Divenni famoso in tutta la Grecia. Artisti e scrittori venivano da ogni parte per studiare le mie opere: si sforzavano di misurarle, di imitarle, di ricostruire il mio canone – cercavano il principio che governava il rapporto fra tutte le proporzioni. Ma io non avevo più un canone e poi ero già lontano, infinitamente lontano, persino da me stesso – tendevo a qualcosa di risolutivo ed eterno, qualcosa che esaurisse la mia ricerca e mi vietasse di scolpire per sempre, come era accaduto a mio padre; perché l’arte era per me una tortura.
Avevo ereditato la bottega e la scuola. Mio padre era morto di vecchiaia e silenzio, forse anche per colpa mia. Più venivo acclamato, ricercato, e più la mia vita si scavava dentro. Il mondo mi attraeva, mi straziava l’anima con le sue promesse, ma ogni cosa, alla fine, mi sembrava insufficiente. Provai di nuovo a mescolarmi agli uomini, a vivere anch’io la vita di tutti.
In quel tempo conobbi una donna − sì, c’è stata qualcuna prima di te. Era bella, una flautista di Amatunte, con grandi occhi neri un po’ tristi. Anche lei aveva inseguito l’arte, ma senza fortuna; mi disse che aveva dato tutto alla musica, senza ricevere niente.
Una sera mi guidò per un labirinto di strade intrise di odori familiari, attraverso una nebbia d’aglio, di minestre, di panni stesi ad asciugare e olio di lucerna, fino a una camera vuota, ingombra soltanto di tappeti e coperte. Si spogliò con timidezza, saltellando leggermente su una gamba per sfilarsi il vestito, nella luce scarsa di una lampada rotta. Il suo corpo era piccolo e bianco, con un tenue riflesso di capillari vetrificati, verdi e viola, nell’incavo tra i seni. Quando i nostri corpi si unirono, mi invase l’odore della sua pelle, una fragranza chiusa e carnale, di zuccheri e frutta, qualcosa di cui non mi sarei mai potuto appropriare, e che mi fece pensare alla morte. Quella notte soffrii, e smisi di cercarla. Ci furono altre donne, che trattai freddamente: non ero capace di amare. E tornai a vivere solo, come sempre – non potevo sopportare nessuna compagnia.

Presto ebbi in odio anche il lavoro. Lo scalpello mi pesava orribilmente tra le mani; il marmo non reagiva più al mio tocco, era ottuso e bestiale, come un crampo in fondo allo stomaco; ogni sforzo mi sembrava inutile, un martirio perfettamente superfluo – in tutto ciò che avevo creato non c’era amore, non c’era salvezza, non c’era niente. Guardavo le mie opere, i ritratti e i gruppi scultorei, le statue votive, guardavo la Venere che aveva umiliato mio padre e mi aveva reso celebre – e detestavo tutto, senza eccezioni. E un giorno, in bottega, ebbi come una vertigine; un fischio appuntito mi scavò nelle tempie. Vedevo ogni cosa allontanarsi da me, in uno spazio improvvisamente enorme, e tutto era così estraneo, inaccessibile – avevo sacrificato la mia vita per niente.
Feci portare via le statue – non ne reggevo più lo sguardo. Chiusi la scuola e licenziai gli allievi. Chiusi anche la bottega, rifiutai le commissioni, risarcii i clienti. Passavo intere settimane nell’atelier deserto, passeggiando avanti e indietro, indifferente a tutto, la barba lunghissima, con solo un’oscillazione sorda alle radici del petto, come se una vespa mi fosse entrata nel corpo e sbattesse contro le costole per cercare di uscire.

E un giorno qualcosa entrò veramente, ruppe il silenzio con un urto improvviso contro il bordo di una finestra. Alzai lo sguardo e vidi soltanto la grande apertura immobile che squarciava la pietra, e dietro l’azzurro del cielo, indolore, distante − e in basso, sul pavimento, un piccolo grumo che tremava, grigio e bianco, un’ala ferita e gli occhi scuri dilatati in un grido di allarme.
Lo sollevai, mi stava in un palmo. Non avevo mai tenuto fra le mani un corpo così esile e caldo: una strana vertigine chiusa nel cerchio delle mie dita. E a un tratto il suo sguardo brillò di una luce accecante, come se vi esplodessero dentro migliaia di piccole stelle. Ricordo il bagliore improvviso, la sensazione che qualcosa fosse lì presente, una bellezza indicibile, straordinaria − e il passero distese l’ala ferita, si alzò in volo e scomparve in un attimo, lasciando nell’aria una traccia dorata.
Solo allora compresi, riconobbi la dea – e sentii nel sangue una specie di febbre, con lunghi brividi e un calore alle tempie, e finalmente piansi. Piansi fino a sentirmi libero e triste, sereno e triste – svuotato.

Quella sera – ricordo – non riuscivo a dormire, camminavo a piedi nudi per la stanza, avevo freddo ai denti, alle ossa, tornavo a letto ma anche lì era freddo, con due, con tre coperte, era comunque freddo, da quando in una sera d’aprile era tutto così freddo?
Compresi allora che quel freddo era il soffio di qualcosa di sacro, di immortale, come il vento che muove le cime degli alberi nei recinti dei santuari e si compone in oracolo; e che il dolore che mi abitava da sempre era una specie di dono, un minerale piccolo, prezioso, coperto di terra – e solo lavorandolo con cura, solo facendone qualcosa di vivo e di lucente, mi sarei salvato.
Ero come in preda a un delirio. Mi chiusi nello studio, ripresi in mano gli strumenti. Lavoravo notte e giorno a un blocco d’avorio, così bianco da ferire gli occhi, come il riverbero improvviso del sole sulla neve. Non cercavo più l’ammirazione, l’ambizione, la gloria feroce di sapermi amato: il mondo adesso era così lontano. Inseguivo una forma impossibile per poter amare io, finalmente io – solo questo volevo, fabbricarmi un sogno perfetto di infelicità e di amore.
Lavoravo alle singole membra, concentrandomi su porzioni minime, eppure qualcosa di infallibile mi guidava, più profondo dell’intelligenza o dell’istinto − e mentre procedevo coprivo le parti già scolpite del tuo corpo con grandi teli neri, come si coprono gli specchi in una casa visitata dal lutto: perché sarei rimasto intrappolato nella tua bellezza come l’anima di un morto nel riflesso di una superficie, se mi fossi fermato un solo istante ad ammirarti, prima di averti compiuta.
Non so come ho lavorato, non potrei replicare il procedimento. Forse caddi preda di una crisi di follia, forse per tanti giorni e tante notti io ho perduto la ragione. Nel silenzio mi sembrava di sentire una musica, e io ne riproducevo le scansioni, gli intervalli tra i toni – ma questa musica non corrispondeva a nulla di esistente, a nulla che l’uomo potesse inventare. E del resto non aveva note, né intervalli né toni, e non era neppure una musica. Veniva da uno spazio più profondo, forse da qualcosa di sconosciuto persino agli dèi. E io l’ho dimenticata, come si dimentica un sogno – ma è trascritta per sempre nelle onde del tuo corpo, nel silenzio inviolabile della tua voce.
Quando diedi l’ultimo tratto e levai i teli, mi morsi un braccio per non gridare: fu come fissare gli occhi nella luce di un miracolo, sorprendere un dio nella sua nudità, in un atto di abbandono – e di colpo mi sembrò di vedere la mia vita e ogni cosa in una eterna trasparenza, in uno spazio infinito, circolare, al di là del tempo, senza più sottrazioni, e mi parve che anche tu e io fossimo luce, perché non c’erano ombre sul pavimento, e dal fondo del tuo silenzio sentii qualcosa di segreto che chiamava il mio nome.
Ebbi paura, allora, di essere impazzito davvero, o di venire trasformato in qualcosa di inerte, di bestiale, di subire un accecamento. Ma non accadde nulla, il mondo riprese la sua consistenza, e sentii soltanto qualcosa di caldo che mi riempiva le vene, un fuoco sottopelle; e rimasi a contemplare immobile la tua bellezza, una bellezza di cui io non ero capace − una forma con la quale nulla di umano può nascere.

Adesso, a Cipro, tutti credono che io sia pazzo. Per questo mi sono trasferito qui, con te, ai piedi del monte, che ci protegge con la sua schiena. Ogni sera il vento entra dalla finestra, scompiglia ogni cosa, e l’ombra invade le stanze, ma nulla di tutto ciò ti riguarda. A volte scendo in città, a comprare regali che potrebbero piacerti: conchiglie e sassolini variopinti, gocce di ambra stillata, collane, anelli. Se qualcuno mi riconosce, sputa per terra e cambia strada. Ma non mi fa male, non mi fa male – nulla ormai potrebbe ferirmi.
La sera ti adagio su tappeti di porpora frigia. Dovresti essere pesante, e invece sei così leggera – sui cuscini resta appena un’impronta. Poggio la testa sul tuo seno, e la pressione mi scava nella pelle una tenue lacerazione. Se il sangue all’improvviso mi batte all’orecchio, mi sembra di sentire il tuo cuore.

Matteo Branduardi

 

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