Orfeo vittorioso – racconto di Oscar Palessa
Redazione2025-01-19T23:08:35+01:00Agriope, dagli occhi selvaggi, fu strappata alla morte mentre danzava.
Minuscoli fili di ossidiana compongono i prati dell’Ade, e fra gli spazi che li separano piccole bocche senza labbra si aprono e chiudono senza posa. Gli schiocchi dei loro denti aguzzi intasano il silenzio.
Non tutti i morti camminano per i prati, ma molti; e quasi tutti soffrendo.
Sulle punte acuminate di quell’erba violenta Agriope imitava il vento, e al suo passaggio il buio si faceva azzurro come il fondo di un lago limpidissimo.
Quelli che intorno a lei arrancavano, e versavano sangue e piangevano, alzavano le misere teste quando sentivano la seta di Agriope tagliare l’aria. Guardavano i capelli neri gonfiarsi e cadere, l’ombra di un seno o di una caviglia rivelarsi alla fine di un movimento più ardito degli altri.
Il suo sangue spillava come quello dei camminanti, come quello dei camminanti gocciolava nelle bocche dentate. La sua bocca, aperta a metà in un’estasi sospesa, non urlava. Gli occhi chiusi immaginavano le forme del movimento successivo.
Quando i suoi passi frenetici la allontanavano, e l’azzurro scemava e il buio tornava a ricoprire i prati, allora i morti ricominciavano a piangere e con voci pigolanti maledicevano l’Abisso. Altri, più avanti, avrebbero presto alzato la testa.
Agriope danzava e correva verso la fine dei prati dell’Ade, che i colpevoli cercano in eterno fra le pieghe del dolore e i fili di ossidiana, e a loro offriva la breve consolazione dell’innocenza altrui.
Agriope senza colpe a cui Plutone offrì la beatitudine, che in vita danzava nuda per Diana e che a Diana aveva consacrato il proprio ultimo amore. Agriope strega, guerriera e madonna, che a Plutone rispose ridendo e ridendo si incamminò sulla via di chi insulta gli déi. Agriope che tutto aveva provato in vita, e che della morte avrebbe conosciuto ogni cosa.
Vestita di seta e rimpianta dalla Luna, Agriope ballava e sanguinava e non piangeva, mentre Proserpina sorrideva non vista e Plutone si interrogava sul cuore delle donne.
Agriope dagli occhi selvaggi e il cuore semplice, strappata alla morte mentre danzava per i cuori secchi dei morti. Per i loro occhi tristi.
L’uomo aveva mani come ragni, con lunghe dita sottili che stringevano una lira, e camminava di fronte a lei. Alle loro spalle echeggiavano il pianto acuto delle Erinni e il triplice uggiolio di Cerbero. Dall’ingresso a malapena intravisto, più in alto, il sole si riversava con violenza nel ripido cunicolo. Avvolgeva l’uomo con un mantello di luce fredda, e accecava Agriope. I prati, scomparsi da sotto i suoi piedi mentre si apprestava a superare una collina, erano stati sostituiti da roccia arenaria color sangue.
Camminava senza volerlo, tre passi dietro all’uomo. Quello non parlava, e a malapena se ne udiva il respiro. Agriope ne immaginava la voce con gli strumenti della memoria, mentre il suono dei suoi passi, sordi e pesanti, si sovrapponeva ai pianti sempre più lontani.
Nel ricordo lui pronunciava parole di amore e promesse di eternità, impossibili giuramenti che univa nel canto e accompagnava alla musica. Se in vita avevano strappato ad Agriope i sorrisi, e poi le lacrime e i baci commossi, in morte erano diventati ricordi sbiaditi e terribilmente incolori. Privi di sostanza come la forma eterea che col nome di Agriope risaliva al mondo. Ma l’uomo aveva mani con dita di ragno, ed era giunto per rispettare le proprie promesse.
Il sole era vicino, ora, ma lei non percepiva alcun calore. Più la luce si faceva forte più i suoi occhi soffrivano, recuperando la cognizione di un dolore che la morte aveva sepolto.
Agriope dalle caviglie sottili camminava impotente per l’anabasi dell’Ade, mentre ripensava al volto di un fanciullo morto suicida e alle risposte celate oltre il buio dei prati d’ossidiana, al centro del cuore del Vuoto. Era un pensiero doloroso, che le causava fitte di nostalgia sempre più forti man mano che si avvicinavano all’esterno.
Agriope figlia di Naiadi, che aveva conosciuto il bacio di Prosperina e che in quel bacio aveva riposto il proprio futuro, percepiva i tentacoli di un tempo sbagliato avvilupparsi intorno alla sua forma monca. Agriope dalla gioventù eterna e il destino scritto, che aveva accolto il morso del serpente senza timore. Agriope impalpabile e ombra dei vivi, in cammino verso un mondo di ombre.
Ricordava il momento in cui i denti della serpe le si erano piantati nella caviglia, il dolore dolce che ne era seguito mentre cadeva fra le margherite. L’uomo era con lei. Gli aveva sussurrato il proprio amore, gustandolo come si gusta l’ultimo boccone di una prelibatezza. Ma quando aveva alzato lo sguardo in cerca dei suoi occhi, per guardare la vita ancora una volta, aveva trovato paura, rifiuto, e un dolore di pietra che già guardava lontano.
L’uscita del cunicolo era ormai vicina, e Agriope non vedeva quasi più nulla. Percepiva la consistenza della luce come una lancia che la trapassava da parte a parte, straziandola.
Aprì la bocca per parlare, e già nella mente le si formava una preghiera accorata, un canto con cui spiegare quel che i vivi temono senza capire e così, forse, salvarsi. L’uscita era ormai a pochi passi.
E tuttavia, prima che le parole potessero rompere il silenzio, Ermes malvagio infuse vita a un ricordo meno sbiadito degli altri. La mente di Agriope tornò alle margherite, al prato dove una serpe le aveva rubato la vita. Alla sagoma dell’amato. La forma del ricordo si sovrapponeva, identica, a quella che le camminava di fronte.
Chiuse la bocca. Capì che parlare sarebbe stato inutile.
Anche questa volta non l’avrebbe guardata.
Oscar Palessa