Le voci cattive – racconto di Livio Santoro
Redazione2024-10-02T10:46:22+02:00In questo interminato sprofondo. In questa estesa forra ristretta. Ed erma e seclusa. La vita che ci è data procede. Procede comunque. Procede in orazioni e preghiere. Recitate in onore delle precipiti voci. Ed è una vita lunga di attesa. Di cui solo talvolta godiamo. Solo di rado. Quando al crepuscolo la speranza si scioglie. E anche dopo. Benché temporaneamente. E così ogni volta. Nulla di definitivo. Se non questo luogo. Con la sua sabbia. Le sue pietre. Le sue pareti. Poi subentra un bisogno di immanenza. Ed è allora che lo scrupolo svilisce. E le urla esplodono plurali. Le nostre. Stavolta finalmente. Urla più forti delle precipiti voci. Urla assai più forti. Che seppure nel breve le soverchiano molto. Urla che cercano udienza. Benché inascoltate. Urla alla deriva. E allora le nostre sono voci di nuova gioia. Voci di consolazione. Voci di nuova luce. Voci di passato rammarico. Voci di impavide risa. Le nostre sono voci tenaci. Voci di nuovo ardimentose. Voci inutilmente pugnaci. Voci tuttavia arrendevoli. Già disposte alla resa. E altre voci ancora. Voci incerte nella desiderata attesa. Voci concordi ed egualmente discordi. Voci unanimi e contraddittorie. Voci che animano le nostre adunanze. Riunioni impervie durante la notte. La notte. Un vivido scoglio nell’ombra pesta della forra. Un vivido approdo morato. Promontorio dirupato e scosceso. A picco su un mare nero. Di una forra altrettanto nera. Come la notte. Benché breve. Breve non la notte. Né la forra. Ma l’approdo.
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Quello che siamo siamo. Bisogna farci il callo. E allora questo solo siamo. Voci contraddittorie e mendaci. Voci discoste. Lontane da tutto ma presenti a sé stesse. Sempre e comunque pronte a scattare. Almeno nei casi simili a questo. Quando si verificano le giuste condizioni. Ovvero quando ne cade una. Come ora. Cade veloce dall’alto. Poi un botto. Poi un tonfo. Uno scoppio. Esito certo dell’ennesimo tentativo incerto. Benché necessario. E allora non più soltanto voci siamo. Ma torniamo a essere quel che siamo. Carne e nient’altro che carne. Carne in cerca di altra carne. Carne che dopo lo schianto non urla. Carne che per qualche tempo geme. Carne che poi ammutolisce. Carne spaccata. Carne umida che non freme. Carne ancora calda e infuocata. Carne salata. Carne strappata in cento brandelli. Carne tirata via dalle ossa. La carne della festa. E dopo la festa il lutto. Quando si ride e si piange insieme. Che sia di sdegno o sia invece di gioia. Piegate a capo chino sul desco. Giunte in un abbraccio stretto. Quelle che ne hanno tratto beneficio temporaneo. Le sorelle sazie. Le sorelle satolle. Le sorelle strette in cerchio. Stavolta prossime e accoste. Unite in preghiera mano nella mano. Le dita lorde. I denti umidi. I denti sozzi. E che umidi e sozzi ridono ancora. E nemmeno piano. Benché da fuori non li senta nessuno. E piangano invece gli occhi. Dopo aver masticato e fatto a brani. E se vi fosse luce rilucerebbero cupi. Se vi fosse fuoco.
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Poi si discute. Si discute di un solo argomento per volta. È imperativo circoscrivere il campo. Un argomento e nient’altro. Dopo che si è riso e dopo che si è pianto. A stomaco pieno. Satollate di forze adesso soverchie. Sovente si discute per lungo tempo dello stesso. Si avvicendano versioni su versioni. Adattamenti emersi nel breve. O anche lunghe tradizioni. Ma nessuna si esaurisce mai del tutto. Gli argomenti nemmeno. Come oggi. Che c’è da discutere del ruolo che abbiamo. Benché altre volte se ne sia già discusso. E con furore d’avanzo. Questo è chiaro. L’argomento principale. L’argomento ritrito e cruciale. Si può dire che questo è nient’altro che questo. Ossia la nostra vita cattiva. Quella di prima e quella di ora. Quella che era di sopra. Benché nulla sappiamo di prima e di sopra. Quindi nemmeno se eravamo. E se sopra o già sotto. Già sotto ma altrove o se chissà dove. Discutiamo delle pristine condizioni eventuali. Le nostre e le loro. Del ruolo di sotto. Di sopra e di altrove. Del nostro ruolo di adesso. E ruolo nel caso vuol dire assai molteplici cose. Per quale motivo. Per quale causa. Per quale fine. Per quale ragione. Se ve ne sono. E altre ipotesi ancora. Per quale narrazione dice oggi una voce. Ragiona in maniera del tutto strumentale. Inveterata abitudine la sua. Diuturna per il vero. E non sarebbe certo l’unica. Né la prima. Altre infatti sembrano rifletterci su. Qualsiasi cosa sia la devi pur raccontare. Devi pur trovare almeno un modo. O forse il modo. Se ce ne fosse uno solo. È questo il ragionamento. La dimostrazione. E va avanti con il piglio sedulo del dubbio. Ed è interrogativa. C’è allora chi non regge all’incertezza. E sprofonda di nuovo nell’afflizione. Con gran dispendio di vigore. E chi al contrario ride ancora. Chi si accascia e prova a dormire. Chi si gira dall’altra parte. Nessuna preghiera nell’occasione. Finché un’altra voce che precipita e cade. Poi un altro schianto. Un altro botto. Un altro tonfo. E riprendiamo daccapo. Riprendiamo di nuovo. La verità è che siamo fatte di abitudini vizze. Sozze schiave delle sozze condizioni. Si sposti però chi è già piena. Per favore. E le altre si appressino ora. Che ormai la voce è caduta. E non più geme.
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Per liberarci dai vincoli affettivi. Ci è stato detto. E nessun’altra parola. Solo un interrogativo da riempire. Con ciò che più ci pare. Allora forse è proprio questo lo scopo. La nostra ragione. Di certo la procedura. E i morsi della fame. Denti aguzzi confitti nella nuca. Confitti nel collo. E non solo quello. Liberazione in fin dei conti vuol dire accettazione. Hanno provato a sostenere alcune. Senza nel caso insistere. Né trincerarsi dietro una retorica dubitativa. C’era certezza in quelle parole. C’era solida spavalderia. Liberazione da noi stesse. Il nostro principale affetto. Il nostro vincolo particolare. Hanno provato a sostenere un giorno. E subito dopo sono andate più a fondo. Non può essere che il corpo. Altre hanno detto feroci. Allora bisogna non mangiare. È questa forse la conclusione. E bisogna invece cadere. O almeno provare. Provare a salire. Non figurarsi il corpo né la caduta. Il desco fu assai abbondante nell’occasione. Le voci diverse e tante. Prima un breve slancio. Poi numerosi schianti. Poi più silenzio ancora. Ma assai meno pianti.
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Certe volte invece ci mettiamo a cantare. Succede quando piove. E allora non si fa altro. Non una discussione. Non un tentativo fallimentare. Non una sola caduta. Né uno schianto. Solo canti che conosciamo a memoria. Canti di grazia come preghiere. Canti celesti e neri. Canti fondi di abissi rupestri. Canti di fervida fede. Canti che simulano odori leggeri. Canti di dolci abbandoni e neri. Canti serici e cortesi. Canti esiziali. Canti che suonano sempre uguali. Canti inutili e ripetitivi. Canti urlati. Canti di voci votive. Canti umidi e fieri. Canti che non portano a niente. Se non a fissare il desiderio ancora. Che è uno solo. Ancora incolume e lene. Che non è mai perduto. E allora un’altra conclusione. Forse è proprio questa pioggia la nostra dannazione.
Livio Santoro