La colpa – racconto di Cristina Eléni Kontoglou

La colpa – racconto di Cristina Eléni Kontoglou

Ero una bambina che uccideva grilli, spaccandoli sotto i sassi per crudeltà infantile, tra i cedri del Pentadaktylos. Dormivo sotto i lentischi, sulla nuca ghirlande di verbene. Mia madre, Cecri, mi rimproverava. Diceva che solo le rose e i giacinti intrecciati in corone di rami erano ammessi al palazzo per profumare la pelle e gli abiti – i singoli distillati, applicati sull’epidermide, avrebbero potuto alterare la natura del sangue. Ma io aggiungevo alle corone del biancospino, e della passiflora incarnata per addomesticare e drogare le ancelle. Loro mi rincorrevano perché non mi facessi del male. Io le trattavo come animali, cuccioli da caccia da accarezzare, nutrire, frustare, purché mi distraessero. Sapevo anche come deliziarle. Regalavo loro vesti tinte dagli speziali dell’isola, olii al mandarino, pettini di tartaruga: si dimenticano presto i torti in cambio dei gesti. E i gesti vengono scambiati facilmente per affetto. Ma le amavo. Non amavo mia madre, invece. Non possedeva discrezione. Nessun amore per i propri segreti, nessuna distinzione tra il dentro e il fuori. Non aveva sentimento per i propri pensieri. Sedeva lungo le mura basse che costeggiavano le stanze al sole, perseverante, finché la pelle non diventava gialla e livida per le escursioni. Persino in questo non sapeva cercare riparo. Le persone intorno e fuori dal palazzo amavano l’innocenza senza stupore, il candore familiare con cui si rivolgeva agli estranei.

Mi chiedevo come potesse, mio padre Cinira, averla scelta tra tante. Come poteva sembrare, al re, calarsi dentro di lei nell’intimità. Doveva essere come sostare in un cortile aperto, senza alberi o vento a seccare la sete. Lei invece mi amava: diceva che ero il suo splendore, l’unico gioiello che volesse indossare senza possedere. Mi sentivo colpevole, e per non riuscire a ricambiare tanto amore finivo per averne disgusto. Ma simulavo. Le portavo mazzi di fresie gialle da appuntare nei capelli. I suoi capelli sottili, in cui le mani riemergevano subito dalle ciocche sottomesse – non avevano il biondo caligine dei miei, ma erano di un castano univoco, senza riflessi. Era una donna senza ombre, Cecri, per il solo fatto di non saper sbagliare; non avrebbe saputo da dove iniziare.
Questo, fino al giorno in cui si vantò con innocenza della mia bellezza, dei miei capelli argento, il colore delle coppe di Alessandria. È così che offese Afrodite e ne attirò su di me l’odio. Da lì iniziai a violare quello che non era mio, a entrare nelle menti delle persone di nascosto, come i veleni. Mi ero introdotta nel campo proibito delle dee e delle eccezioni.
Mia madre pronunciava il mio nome e le nubi si caricavano di piogge affilate. Tagliavo foglie da raccogliere nei vestiti tra gli allori del parco, quando l’acqua iniziò a cadere. Bruciava le vesti lasciando buchi nei tessuti, le donne si coprivano le spalle con foglie di mirto e scialli. Io corsi verso il palazzo: sentivo le gocce di fuoco liquido scivolarmi sulla schiena, cercare spazi segreti dove esplorare fino alle linee smorzate del seno, tra il pube ancora glabro. Intanto soffrivo senza conoscere il mio rimedio.

La tempesta di acqua rovente aveva colpito l’isola, costringendo gli abitanti nelle case per giorni. Una mattina – le nostre serve ancora dormivano, le mani ferite e bendate per le ustioni – la madre mi chiamò per andare alla fonte a prendere dell’acqua nuova, destinata al bagno di mio padre.
Anche il re era stato ferito dalle piogge. Corsi alla fonte sopra le colline del fiume Pedeos. Al contatto con il freddo, non riconoscevo più la natura dell’acqua tanto da ritrarre le mani. Ma l’inganno ero io. Qualcosa in me bruciava lame sopra vesciche purulente. Una volta al palazzo, mi avvicinai alle stanze di Cinira, la brocca pesante su una spalla. Entrai e lo vidi, disteso sul letto, come non lo avevo mai visto abituata com’ero a osservarlo da lontano, durante i tornei e i banchetti. Ora era una bestia docile. Indossava una veste bianca da cui uscivano le gambe in rami nodosi. Come l’ambra la sua pelle, in apparenza forte, era esposta ai graffi e alle abrasioni. Dalla rientranza della veste vedevo la gola scura del suo sesso alzarsi e abbassarsi col respiro mentre dormiva. Presi l’alabastron, in una ciotola versai dell’acqua, sabbia e orzo, da qui iniziai a mescere per ammorbidire un panno di lino. Lo passai lungo le braccia, le spalle, il busto, e ancora verso il basso lungo le gambe e i piedi, strofinando all’interno delle cosce a gesti lenti. Sentivo il suo odore di vino e maggiorana e toccavo con le dita sotto il panno i tendini tesi. Poi la lingua di fuoco che avevo nella pelle prese a sussurrarmi: mi invitava a toccare consistenze dai sentori di resina. A un tratto urtai con il dorso della mano qualcosa, era ruvido e liscio sopra il monte fitto, teso come i tessuti del resto del corpo. Rispondeva al mio tocco in sussulti, come le pernici che facevo saltare nella radura, lanciando pietre. Cercava i miei richiami. Lasciai il panno sul cuscino e fuggii, inorridita della mia mancanza di orrore.

Da quel momento la pelle prese a bruciare, e la mia nutrice doveva stendermi impacchi di latte cagliato la notte, per non lasciare che mi scuoiassi con le unghie. Di giorno annegavo tutto nella salsedine della riva, obbligandomi a camminare tra le acque salate per alleviare e disinfettare le ferite, io che avevo sempre preferito le acque dolci.
Arrivarono le celebrazioni di Demetra, e mia madre venne allontanata per preservarsi nella castità. In quei giorni la nutrice, che aveva capito e mi amava come una figlia, mi fermò una notte in cui volevo strangolarmi sotto i pothos e gli ibischi. Fu lei e non mia madre – costellazione che brillava distante dalle cose umane, sempre uguale a se stessa – a trascinarmi via mentre ero ancora nuda, perché ormai anche i vestiti offendevano la carne. Sempre lei inventò per me un inganno peggiore di quello delle dee. Persuase mio padre a giacere con una vergine, e al buio mi mandò da lui la notte di Perseide, oscura madre di Circe, una notte senza astri in cui neanche il cielo sarebbe stato presente a guardare le leggi umane. Rese docile il re con del Koummandaria, il vino sacro delle nostre colline. E così per altre nove notti.
La pelle smise di spaccarsi come calcare, alle pendici del Trodos in estate. Ritrovai gli abiti e il sonno, ma non potevo smettere di volere il mio male. Al ritorno nelle mie stanze, pregavo la stessa dea che mi aveva punita. Più desideravo Cinira, più sentivo il suo sesso tra le gambe, e l’orrore era un prezzo che addormentavo annegandolo con le mie mani, tentando di placarmi da sola.

Il decimo giorno Cinira, suggerito da Afrodite, mi illuminò con una lanterna mentre dormivo al suo fianco. Le mie gambe e le sue, le curve guarite, esposte. Senza niente a coprirmi, mentre lui scopriva la mia identità. E volle uccidermi, inseguendomi con la spada tra le colonne del palazzo.
Credevo fosse un sogno, correvo indovinando i suoi passi dagli echi sul lastricato familiare. Fuggii verso i boschi sempreverdi di querce, mentre pregavo gli dèi di rendermi invisibile, sottraendomi ai morti e ai vivi. Afrodite mi aveva sempre spiata. Era con noi, mentre ci ricongiungevamo più volte negli amplessi, i fianchi piegati ad arco sotto le dita di Cinira, sporche del mio sangue sopra di lui. Ero sicura che provasse lo stesso. Lo vedevo di giorno, assente recluso nella sua parte di palazzo, disinteressato alle questioni di stato, alle dispute misere tra mercanti. Lo avevo contaminato con la mia febbre di fuoco, io che ero egoista e crudele, ora che avevo imparato come trovare sollievo.
Afrodite ebbe pena di me. Mentre ancora sussurravo preghiere le unghie si spezzarono, e da queste uscirono radici, alla colonna vertebrale si sostituì il midollo legnoso, e alle cellule vischiose, fredda linfa. Mi trasformò in albero di mirra, il myron unguento fragrante, perché potessi piangere lacrime di resina odorosa e medicamentosa, ultima traccia della mia antica forma.
Ma neppure gli dèi sfuggono alle Erinni.

Le folli la resero Afrodite schiava, facendola innamorare di mio figlio Adone, uscito dal ventre legnoso e innaturale a metamorfosi incompiuta, quando sotto ero radici e sopra ancora umana. Non avevo più braccia per toccarlo ma lo riconobbi, il mio pugnale per la dea. Sarebbe stato lui a vendicarmi.
Trascorsero gli anni, Cinira scomparve e anche mia madre, e Cipro fu conquistata dagli stranieri. Adone non mi cercò, non chiese di me neppure una volta. Era insensibile e arido a sufficienza per servirmi. Così come era nato dalle cortecce, nel cuore aveva legni da bruciare. Afrodite lo aveva mandato da Persefone per disfarsene, poi lo aveva rivoluto indietro. Ma Persefone non aveva voluto restituirlo. Venne stabilito che restasse la metà dell’anno con una, e l’altra metà con l’altra. Fu Afrodite a sottrarlo per sé, non rispettando il patto.
Persefone allertò Ares, l’amante dimenticato della rivale. Ares mutò in cinghiale e inseguì Adone fin sopra il monte Libano, dove lo uccise come un cane. Non sapevo se piangere un figlio che non avevo conosciuto e che mi ricordava l’unico uomo che avevo toccato, o se essere soddisfatta del dolore di Afrodite. Mio figlio Adone era questo: bellezza contesa da chi guardava e goduta da chi la possedeva, bellezza svanita come le cose effimere.

Ora non conosco altra lascivia, tranne quella del meltemi che mi viola ripetutamente, e corrompe le foglie tondeggianti sviluppate sotto le piogge, curvate all’apice come clitoridi. I miei frutti si aprono in due valve, a contenere la porzione carnosa. Le mie resine attirano gli insetti contro il mio volere e le piante cedono alla mia bellezza la loro linfa, perché possa procreare altro liquore. Nessuno sa che sono stata io a riportare alla dea le parole di mia madre, per allontanarla da noi, e lasciarci soli, io e il re Cinira.
E non una persona potrebbe raccontare come io abbia detto al vento di portare ad Ares il messaggio che Afrodite era con mio figlio. Ho dovuto sacrificarlo, perché le colpe della nostra stirpe sparissero, mentre lui, Adone, era la dispersione. Ho modificato la mia forma come le bestie che imparano a mutare per perdurare, ma non lo scopo. Questo è solo l’inizio, il principio è già stato.

Cristina Eléni Kontoglou

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