La musica del sangue – racconto di Bianca Rigon

Albrecht Altdorfer, "La battaglia di Alessandro e Dario a Isso", 1529.

La musica del sangue – racconto di Bianca Rigon

La città era stremata: da trenta giorni si sentivano ruggire le voci ubriache dei lanzi, che fuori dalle mura lanciavano minacce in quelle lingue di settentrione, dure, ostiche, come la maledizione di una strega. Europa era esausta, non riusciva a pensare. Il giorno prima aveva nascosto tutte le menorah e le altre argenterie rituali nel pozzo del giardino, aveva mandato i figli minori a stare da un gentile dall’altra parte della città. Il rabbino era stato categorico: «I lanzi verranno per prima cosa al ghetto, cercheranno di me perché sanno che io ho la chiave della cassaforte della comunità». Aveva lasciato dentro a quella gran macchina che veniva da Stoccarda, e che aveva fabbricato suo cugino Ishmael, gran fabbro ferraio, note di credito, qualche lingotto, monete e carte, ma il grosso lo aveva lasciato al marito della sua prima figlia Rebecca. Era stato il gran dolore della sua vita, che la perla dei suoi occhi fosse scappata da casa, ma ora le veniva utile avere un gentile affezionato a cui affidare il tesoro. Lui sarebbe morto: provava nella sua stanza di preghiera un gesto dignitoso con cui porre il collo al carnefice. Ma in quei momenti, malgrado la devozione a Israel, non si può mai sapere se si sarà all’altezza. Europa canticchiava, piano piano, per farsi coraggio: «Io la musica, son». Sembrava un secolo da quando Orfeo era passato come canoro fantasma per l’ammirazione dei nobili. La cantatrice sapeva che l’armonia era mutata: l’aria vibrava nella caligine del crepuscolo. Nei campi aperti dove i lanzi avevano alzato le tende, saliva un rumore sordo, opprimente: la musica del sangue. Che il suo destino fosse segnato dalla morte, come quello di altri che si sarebbero opposti, le era noto. E ormai spendere le energie delle sue ultime ore le pareva vano: rassegnarsi era la scelta più ragionevole, e si riscoprì sorprendentemente saggia in quella predilezione. Si sedette e rimase ad ascoltare le ultime cose che le era concesso, il suono delle voci che, traslato dalla sua mente annebbiata, risultava un canto mistico di morte e di sacrificio, come se la sua vita fosse assolutamente necessaria alla riuscita del piano di Iahvè. E adesso che ci aveva pensato, al fatto che forse Iahvè la credeva veramente un tassello del tutto, si rese conto che se Lui le aveva riservato un destino talmente funesto, niente poteva fare se non assecondare le Sue volontà, perché Iahvè non le avrebbe mai dato più di quello che lei potesse sopportare. Quando la Francia cominciò a liberare alcune delle zone intorno alla città che a lungo erano state teatro delle barbarie nemiche, gli imperiali non esitarono ad inviare altre truppe per rimediare il misfatto. Per mesi la pianura fu violentata dal terrore e dalle minacce, in una guerra che non avrebbe portato a niente se non infauste perdite. Nonostante le risorse insignificanti delle quali la città poteva ancora servirsi, Mantova resistette per più di un anno in una condizione di totale povertà e miseria, sotto la continua minaccia della peste, che aveva infuriato per mesi mietendo vite come grano d’estate, compromettendo le difese, data una sostanziale mancanza di uomini. Ma ora si poteva sentire nell’aria, la musica del sangue. È un battito continuo, regolare, una presenza assordante per ricordare che molto presto ogni uomo sarà parte del coro. Ed è un pericolo, per la sua capacità di inchiodarsi nella mente di qualcuno, e fargli domande e rispondere ella stessa con il battito costante che ha sempre mantenuto. E mentre la cadenza di rituale si faceva sempre più stretta, come un pitone soffoca un uomo aggrovigliandosi al suo collo, il rabbino già si sentiva mezzo morto e ormai sottomesso a tutto ciò che sarebbe venuto. In piazza per giorni corsero notizie del tradimento di un tenente mercenario svizzero, che aveva passato informazioni di vitale importanza per la buona riuscita dell’assedio a Von Colloredo, che in poco tempo occupò di sorpresa la porta di San Giorgio. E ora i carnefici marciavano in file perfette, sul passo dell’oca battendo le strade della città con le armature ferree. Batterono contro la porta con un ariete, ed entrarono degli uomini, molti di più di quanti ne servissero per giustiziare un uomo anziano che da lungo tempo aveva perso la forza di volontà di opporsi al suo destino. Si disse che la vita è terribile, poiché è lei che ci governa, non noi che la governiamo. «Adesso ci serve sapere dov’è la ricchezza» disse quello che lo teneva per le spalle, il cui volto era ignoto all’uomo anziano, poiché quello parlava, ma lui era costretto a rivolgergli la schiena. Il rabbino non parlava, complice di Europa e fedele alla sua causa, e gli uomini, che avevano portato corde e coltelli, ne gettarono una attraverso il ricciolo di ferro della lampada ad olio che pendeva statico dal soffitto, e la legarono in un modo che il rabbino non aveva mai visto. Poi lo fecero salire sul tavolo, e una volta che gli ebbero assicurato i polsi stretti fra loro, cominciarono a tirare con violenza l’altro capo della corda. Quando i suoi piedi cominciarono a staccarsi appena dalla superficie di legno, allora capì che avrebbe passato le ultime ore della sua vita fra i dolori più atroci, vergognandosi di sé stesso quando arrivò a giurare nel nome di Iahvè. Fuori dalla finestra dai vetri spessi e opachi, il rabbino scorse gli uomini delle truppe imperiali che accorrevano disordinatamente verso Palazzo Ducale, vero obiettivo di quel sanguinoso massacro. Ora che tutto era perduto, non c’era più motivo di resistere. Ora non c’era nient’altro da salvare.

Bianca Rigon

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