Figlio dell’uomo – sulla storicità di Gesù di Nazareth. Parte prima.

Figlio dell’uomo – sulla storicità di Gesù di Nazareth. Parte prima.

PREFAZIONE
Ci accingiamo a scrivere questa breve nota introduttiva al termine della stesura dell’articolo. Lo riteniamo necessario in quanto più ci siamo addentrati nello studio e nella messa in piedi della trattazione e più ci siamo resi conto di esserci imbarcati in un’impresa tutt’altro che semplice. In primo luogo, perché abbiamo constatato che in certi casi le disamine compiute sulla figura di Gesù non sono esenti da connotazioni ideologiche. In secondo luogo, perché il materiale passatoci sott’occhio s’è rivelato immenso, sia per quantità che per varietà. Ci è quindi parso necessario fare una cernita e operare una selezione. In questo senso, lo diciamo subito, la scelta è considerarsi soggettiva. Altri curatori avrebbero magari dato più spazio a suggestioni diverse, piazzando in secondo piano altre che noi invece abbiamo messo in risalto. Tenendo presente questo aspetto abbiamo delineato un obiettivo che, lungi dall’essere quello di mettere in piedi una trattazione completa sull’argomento – sarebbe impossibile e peraltro improprio rispetto al medium che veicola il messaggio – , neanche siamo certi di aver centrato: fare una sintesi sullo stato attuale della ricerca sulla storicità di Gesù di Nazareth. Tuttavia, ciò che sopra ogni altra cosa ci auguriamo d’essere riusciti a fare è riflettere sulla necessità dell’applicazione del metodo storico-critico (o storico-scientifico). Al culmine delle nostre ricerche ci siamo ritrovati con più domande che risposte e questo ci ha portati su una strada il cui traguardo è nient’altro che la consapevolezza di quanto, dietro il mantello di presunzione e onniscienza dei nostri tempi, poco sappiamo del nostro passato. E di quanto la determinazione di una storiografia ufficiale sia necessaria ma resti, in alcuni casi, nello spettro della storiografia delle probabilità. Nel rispetto di quanto appena sottolineato, abbiamo tentato di esporre i fatti attraverso la lente d’ingrandimento della razionalità proprio perché il nostro scopo, lo ribadiamo, non è confutare o confermare una qualche ipotesi, ma raccontare ciò che c’è da raccontare. Lo diciamo sin da ora, di rivelazioni scioccanti non ne abbiamo. Una cosa però è emersa con prepotenza e chiarezza: la ricerca storica è ricerca metodologica e il metodo deve prescindere dalle implicazioni che le scoperte potrebbero avere sul sistema, su ciò che diamo per assodato, sull’idea dominante. Perché, se da un lato ci sono (molte) incertezze, dall’altro c’è anche qualche evidenza. E non può e non deve essere trascurata.
Buona lettura.

INTRODUZIONE
Effige del cristianesimo, profeta e messaggero di Dio nel credo islamico, predicatore ribelle e controverso per la tradizione ebraica. Ma anche maestro e guida sapienziale che occupa un posto di rilievo in diverse branche delle principali religioni non abramitiche: dall’induismo allo shintoismo. Gesù, figlio di Maria e Giuseppe, è senza ombra di dubbio uno tra gli uomini che hanno maggiormente influenzato la nostra storia e per questo motivo resta tutt’oggi tra le figure più studiate e dibattute in ambito storiografico accademico. Intavolare un discorso sulla storicità di Gesù non è semplice, non solo perché tale discorso resta spesso e volentieri correlato a questioni fideistiche – a prescindere dal tipo di fede di cui si parli – ma anche perché esistono centinaia di studi talvolta contraddittori sull’argomento e fare ordine non è impresa da poco. Ci proveremo affidandoci alle fonti più autorevoli e alla tangibilità della ricerca archeologica, restando saldamente ancorati al metodo storico-scientifico, base della ricerca storiografica.

LA DOMANDA
Anzitutto: qual è la domanda alla quale bisogna rispondere? La ricerca della domanda è già di per sé una domanda in quanto si muove sul sottile filo che separa l’interpretazione storica dall’esegesi teologica. È necessario, infatti, distinguere i due binari dell’indagine: quello che conduce alla ricerca di prove riguardo l’esistenza di Gesù da quello che conduce alla ricerca di prove riguardo la veridicità dei singoli dettagli, delle parabole, dei miracoli. Parlare di una storicità di Gesù significa sì raccontare di un uomo rivoluzionario che ha dato via a un movimento determinate per le sorti del tempo ma ciò – pur essendo una conditio sine qua non – non determina la necessità di aprire un discorso sulla sua natura messianica. Sebbene alcuni punti – ad esempio l’analisi dell’episodio della tomba vuota, ma lo vedremo più avanti – vadano a intrecciare il doppio filo della domanda, l’indagine accademica si concentra principalmente sulla questione più immediata: Gesù è realmente esistito? È bene dire subito che la maggioranza degli storici, degli archeologi e più in generale degli studiosi è concorde nel dire che sì, Gesù di Nazareth è realmente esistito ed è stato un predicatore vissuto intorno al I secolo tra la provincia romana di Siria e le regioni storiche della Galilea e della Palestina. Ma come si è giunti a ritenere non solo plausibile ma addirittura più che probabile l’esistenza storica di Gesù?

IL GESÙ STORICO E IL MITO DI GESÙ: UN BREVE EXCURSUS
Specifichiamo subito che alla tesi del Gesù storico si contrappone quella del mito di Gesù. Questa seconda ipotesi, emersa intorno al XVIII secolo e frutto di controversie sorte in determinati ambienti, è oggi considerata da molti pseudostorica ed è respinta quasi all’unanimità dal mondo accademico. Nonostante ciò, larga parte dell’opinione pubblica ritiene ancora che il dibattito sia in corso e ciò apre spazio a una riflessione che potrebbe estendersi anche a altri ambiti di ricerca (esobiologia, archeoastronomia, fisica, giusto per citarne alcuni). È bene specificare, inoltre, che la teoria del mito di Gesù non si basa sulla negazione della natura cristologica di Gesù bensì sulla negazione finanche della sua esistenza umana. Lo studio correlato ai caratteri divini di Gesù di Nazareth  è invece oggetto della teologia e si muove sulla sottile linea di demarcazione che lega questa alla filosofia, alle scienze formali, al finalismo scientifico; e non è oggetto di questo articolo.
Secondo l’opinione più diffusa la ricerca del Gesù storico ha avuto inizio con l’opera del razionalista e filosofo tedesco Hermann Samuel Reimarus (1694-1768) e col suo tentativo di distinguere il Gesù che predicava la ribellione contro i romani dal Gesù della fede. A dire il vero è difficile identificare con precisione le origini della suddetta ricerca in quanto da sempre parte della comunità cristiana ha applicato metodologie razionalistiche al fine di difendere la fede dalle innumerevoli critiche mosse dai detrattori. Nuclei originari di approfondimento storico e critico sono infatti riscontrabili sin dalle prime opere apologetiche, da Tertulliano ad Agostino, passando per Eusebio di Cesarea e altri. In ogni caso, è con le correnti di pensiero che porteranno all’illuminismo e che prenderanno piede a cavallo tra le fasi finali dell’età moderna e quelle iniziali dell’età contemporanea che inizia il vero e proprio studio riguardo la storicità di Gesù. Nell’’800 si fece largo l’idea che fosse necessario lavorare sulla veridicità dei Vangeli giacché, in calce agli studi dei vari David Friedrich Strauß, Albert Schweitzer e William Wrede, emerse l’idea che i miracoli compiuti dal Figlio dell’Uomo avrebbero potuto essere nient’altro che fenomeni sconosciuti e mal interpretati, attribuiti ad una forza divina da una comunità legata a un pensiero prescientifico e a un’ideologia religiosa caratterizzata dalla convinzione d’un’ormai prossima era messianica. Tale passaggio, pur restando fondamentale nel percorso che ha portato alla determinazione delle attuali conoscenze in questo campo, ha successivamente fatto spazio a nuovi regimi d’indagine,  meno legati a un lavoro filologico concentrato sulle fonti evangeliche e più improntato sull’incrocio tra fonti bibliche ed extrabibliche, tra fonti canoniche e apocrife.
Negli anni ’50 del secolo scorso ebbe inizio la seconda fase della ricerca. Questa Second Quest, per quanto di breve durata, ha un’importanza enorme perché indica la necessità di creare una discontinuità tra lo studio riguardo l’esistenza in sé di Gesù e il tentativo di indagare la sua natura divina. Ernst Käsemann, docente e teologo luterano, percorse un sentiero diverso rispetto a quelli battuti in precedenza, spronando la possibilità di ricostruire una vita di Gesù attendibile a prescindere dall’approccio fideistico. Questo nuovo metodo, volto a incasellare i tasselli che legano il messaggio predicato da Gesù di Nazareth con le credenze della prima comunità cristiana, individua in buona parte dei racconti evangelici una possibile verità e getta le basi per quella che sarà poi la terza fase dell’indagine. Questa terza fase, appunto, è caratterizzata da un approccio multidisciplinare, da una maggior e migliore conoscenza della comunità ebraica antica, da una più efficace applicazione delle metodologie d’analisi storica, da una filologia che non s’esaurisce in se stessa ma che intreccia le fonti e incrocia i propri risultati con le conoscenze acquisite riguardo la società, i costumi e le usanze delle comunità dell’anno zero. Il cambiamento fondamentale sta dunque nella capacità di affrontare il tema non solo attingendo anche da fonti eterodosse, apocrife, anti-cristiane, ma guardando alle fonti canoniche senza preconcetti e, davanti alle evidenze storiche e alle prove archeologiche e alle deduzioni logiche, a non mettere la testa sotto la sabbia. Se si mette da parte per un attimo il discorso teologico – e anche quello anti-teologico – asciugando l’oratoria e limitando le elucubrazioni allo stretto necessario, risulta evidente che, utilizzando il metodo storico applicato a ogni altro grande personaggio (da Alessandro Magno a Giulio Cesare), è possibile ricostruire un profilo di Gesù documentabile, attendibile e verosimile.

IL METODO STORICO
La quantità di fonti che abbiamo a disposizione e che afferiscono alla vita di Yēšūa’1 è mastodontica: fonti cristiane canoniche, fonti cristiane apocrife, fonti ebraiche, fonti pagane, documenti romani, attestazioni proto-islamiche, citazioni, ricostruzioni storiografiche, rimandi ad opera di pagani, e chi più ne ha più ne metta. Eppure, attorno a questa figura s’è creata una sorta d’alone di scetticismo. Su svariati testi scolastici troviamo riportate le liste dei faraoni oppure i registri degli imperatori dell’antica Roma, sebbene per molti di questi le testimonianze a prova d’esistenza siano assolutamente limitate e riconducibili, in qualche caso, a un’indicazione dinastica se non addirittura a un cognomen inciso su una moneta. Se da un lato è necessario, nell’ambito della didattica, organizzare il discorso semplificando e dando spazio al ragionamento e alla sensibilità individuale, dall’altro è curioso constatare come, nell’accezione comune, venga data per assodata l’esistenza di personaggi dell’antichità solo grazie a una manciata di prove.
Ciò che hanno fatto gli accademici più accorti è dunque applicare la metodologia della ricerca storica alla figura di Gesù allo stesso modo in cui si sarebbe fatto (e si fa) con qualsiasi altro grande protagonista dell’antichità. Ma in cosa consiste il metodo storico-scientifico (o storico-critico)? Consiste nel processo di rintracciamento, verifica analitica e sintesi delle fonti al fine di determinare il grado d’attendibilità dell’oggetto in esame. È un lavoro che viene svolto attraverso il mutuo dialogo tra le fonti stesse e tra la storia e le altre branche del sapere, dall’archeologia alla filologia e con l’ausilio della filogenetica e di strumenti come la datazione radiometrica. I criteri sono, com’è giusto che sia, molteplici e non è questa la sede più idonea ad approfondire nel dettaglio ognuno ma ci concentreremo sull’esplicazione di quelli necessari alla nostra disamina e non esiteremo, qualora fosse utile, ad addentrarci in territori deduttivi attenendoci al rasoio di Occam – a parità di presupposti, tra due soluzioni si propenderà per la più immediata – e all’argomento del silenzio – in caso di insufficienza di elementi, alla speculazione si preferirà la sospensione del giudizio, onde evitare di giungere a deduzioni errate dovute all’assunzione di premesse inesistenti.
Risulta inoltre necessaria una precisazione metodologica: come già accennato questo articolo si pone l’obiettivo di sintetizzare, di riassumere e di organizzare le ragioni della tesi del Gesù storico. Si tratta di overtura, di un invito alla curiosità e all’approfondimento di un tema guardato spesso con sufficienza ma che, invece, appassiona un fottio di accademici e che, ne siamo certi, non è ancora giunto all’asserzione di un punto definitivo, necessitando di ricerche ulteriori. Ci siamo interrogati quindi sulla schematizzazione da seguire: sarebbe infatti possibile suddividere gli argomenti sulla base del criterio adottato – ad esempio citare tutti gli episodi in cui emerge il criterio dell’imbarazzo (sul quale ci soffermeremo successivamente) – ma abbiamo preferito una suddivisione diversa. Ordineremo le riflessioni sulla base delle fonti: partendo da quelle canoniche e passando per quelle apocrife arriveremo alle fonti extrabibliche e non cristiane, sino alla disamina della ricerca archeologica e alle doverose conclusioni finali.

FONTI CANONICHE
Un primo aspetto da considerare al fine di determinare la veridicità di un’ipotesi è conosciuto come criterio di prossimità. Ossia il principio secondo cui più un resoconto scritto è prossimo temporalmente a un evento più tale resoconto è da ritenersi attendibile. Nel caso in esame, al fine di determinare quali documenti siano meno distanti dai fatti, è necessario collocare cronologicamente il ministero di Gesù. Un buon modo per farlo è determinare l’anno della sua nascita, individuato dalla maggior parte degli studiosi tra il 7 a.C. e il 4 a.C.. In realtà se anche divergesse di qualche anno – sussistono in effetti alcune ipotesi alternative – non si riscontrerebbero problematicità degne di nota. L’individuazione della data di nascita del Nazareno è strettamente correlata all’ipotesi sulla sua storicità in quanto definisce la cornice culturale oltreché temporale che circonda i fatti in esame. Riferimenti alla natività sono presenti esclusivamente nei Vangeli di Luca e Matteo e nel protovangelo (apocrifo) di Giacomo. Quest’ultimo cita due episodi che potrebbero essere interessanti: il censimento di Quirino e la strage degli innocenti. Il censimento di Quirino, evento storico attestato2, fu promulgato, come suggerisce il nome, dal governatore romano Publio Sulpicio Quirino ma solo nel 6 d.C.. La strage degli innocenti, al contrario, è un episodio ritenuto inventato dalla maggior parte degli studiosi, in quanto non menzionato da Giuseppe Flavio – scrittore e storico ebreo-romano di cui parleremo spesso –, che sarebbe stato ordinato da Erode Ascalonita re di Giudea, morto nel 4 a.C.. Risulta subito evidente l’impossibilità di accostare le date e questo ha portato molti studiosi a ipotizzare che un primo censimento fosse stato ordinato da Augusto e effettuato da Quirino già diversi anni prima. Per di più, come anticipato pocanzi, sussistono non pochi dubbi sulla storicità della strage degli innocenti e nel rispetto della necessaria obbiettività annunciata in premessa eviteremo di soffermarci ulteriormente sull’episodio in ottemperanza con l’argomento del silenzio. Il Protovangelo di Giacomo, datato tra il 140 d.C. e il 170 d.C. e attribuito in pseudoepigrafa a Giacomo il Giusto, resta pur nella sua contraddittorietà una fonte abbastanza prossima ai fatti ma c’è da dire che si tratta di un testo da cui traspare, stando alle considerazioni di molti esperti, scarsa conoscenza delle abitudini culturali e civili e religiose dei giudei e questo rende controversa la sua considerazione in termini di attendibilità storica. Discorso diverso è quello relativo ai Vangeli di Luca e Matteo. Le opere sono datate tra il 70 d.C. e il 90 d.C. – alcuni studiosi attribuiscono addirittura datazioni antecedenti e in ogni caso non successive al primo secolo – e, a prescindere dalla reale stesura ad opera di Matteo o Luca, sono da considerarsi fonti primarie in quanto anche gli ipotetici autori anonimi avrebbero potuto attingere informazioni da testimoni oculari dei fatti riguardo la vita di Gesù di Nazareth. Entrambi i Vangeli, inoltre, rivelano una piena consapevolezza dell’ebraismo dell’epoca nonché una certa concordanza spiegabile attraverso la definizione di fonti comuni: il Vangelo di Marco e la Fonte Q (sulla quale torneremo dopo). Luca e Matteo legano rispettivamente gli episodi dell’annunciazione e della natività ai giorni del Re Erode3, la cui reggenza è desumibile dal corpus di Giuseppe Flavio ed è affibbiata tra il 37 a.C. e il 4 a.C.. Tornando alla questione del censimento, in Luca viene detto che i giorni precedenti alla nascita di Gesù fu indetto dall’imperatore Augusto un grande censimento e tre grandi censimenti vengono riferiti dallo stesso Cesare nella sua opera autobiografica Res gestae divi Augusti senza contare che, sebbene Quirino fosse diventato governatore solo dal 6 d.C., questi aveva precedentemente ricoperto importanti incarichi sotto Senzio Saturnino e Tertulliano colloca la nascita di Gesù proprio nel mentre della sua reggenza4. Nello stesso Vangelo viene anche detto che Giovanni Battista, precursore e forse cugino di Gesù, iniziò la sua predicazione nel quindicesimo anno del regno di Tiberio, dando maggior adito alle notizie forniteci da Tertulliano. Entrambi i Vangeli riportano poi diverse informazioni cronologiche relative all’annunciazione che, sebbene possano risultare utili al fine di ulteriori approfondimenti e d’individuazione di altre concordanze, scegliamo di mettere da parte sia per non appesantire questo già difficile tentativo di sintesi sia in quanto hanno ad oggetto fatti in cui l’elemento teologico eguaglia il dato storico.

Io sono l’Alfa e l’Omega, il Primo e l’Ultimo, il Principio e la Fine.
Ap 22,12

Estremamente interessante è, al fine di ridurre il margine d’errore, il tentativo compiuto da diversi studiosi di individuare l’eventuale correlazione tra un qualche evento astronomico e la guida, citata in Matteo, ricevuta dai Magi ad opera della stella di Betlemme. Sebbene molti ritengano l’episodio nient’altro che un artifizio letterario o una ripresa del motivo mitologico dell’annunciazione della nascita dell’eroe, è curioso constatare come studi astronomici e archeoastronomici abbiano dimostrato che i cieli intorno a quegli anni siano stati particolarmente fervidi di avvenimenti degni di nota: dal passaggio della cometa di Halley del 12 a.C. agli eventi celesti del 5 a.C. riportati nelle memorie storiche delle antiche popolazioni estremorientali, passando per la congiunzione tra Giove, Marte e Saturno verificatasi nel 7 a.C..
Al netto di ogni altra speculazione, abbiamo ristretto – affidandoci agli sudi più conclamati – l’ipotetica data di nascita del Nazareno a una manciata di anni ed è dunque più semplice ora, nel rispetto della metodologia storico-critica e riservandoci il beneficio del dubbio, proseguire la nostra analisi tenendo a mente l’importanza della prossimità delle fonti prese in esame. In quest’ottica è bene dire che i Vangeli canonici, sulla base della datazione loro maggiormente attribuita, sono fonti di prim’ordine in quanto, non solo i già citati Luca e Matteo ma anche i Vangeli di Marco e Giovanni risultano riconducibili al primo secolo. Quello di Marco, attribuito dalla tradizione a San Marco Evangelista, ma sussistono alcune ipotesi alternative – ad esempio quella del discepolo di Pietro apostolo –, contiene numerosi riferimenti riconducibili ad accadimenti che ne delineano una precisa connotazione temporale. In Mc 13,14-24 è presente un possibile riferimento alla distruzione del tempio di Gerusalemme (avvenuta nel 70 d.C.) nonché certune corrispondenze tra il suddetto brano e i disordini legati alla prima guerra giudaica (66 d.C.). Eppure, diversi passi dell’opera hanno portato alcuni studiosi a retrodatarne la redazione, collocandola nel contesto delle persecuzioni di Nerone (64 d.C.) o addirittura, seguendo le analisi del papirologo O’Callaghan basate sulla correlazione tra Marco e il manoscritto 7Q5 ritrovato a Qumran, ipotizzandone una probabile composizione avvenuta intorno al 50 d.C., ben prima della morte di Pietro apostolo. Il Vangelo di Marco in questo senso si porrebbe come risoluzione al problema sinottico e s’ergerebbe a fonte di ispirazione per le successive redazioni di Luca e Matteo: tale idea è nota come priorità marciana. Ma cosa sono i Vangeli Sinottici? Con questo termine s’intende l’insieme degli scritti attribuiti, appunto, a Marco e Luca e Matteo. I tre testi, se ridotti a sinossi o a sguardo d’insieme, appaiono similissimi e coerenti nello sviluppo narrativo e nella disposizione in struttura degli episodi. La seconda fonte dei Sinottici sarebbe un’ipotetica Fonte Q – o Vangelo dei detti –, un testo ancora antecedente contenente una raccolta di detti attribuiti a Gesù. Diversi studi filologici hanno portato gli accademici a ritenere necessaria l’esistenza della Fonte Q, tali studi sono basati sulle convergenze episodiche nonché linguistiche e necessiterebbero di un discorso a sé stante. E questo discorso, pur non essendo oggetto della nostra trattazione, necessita d’essere accennato e introdotto in quanto mette in risalto come le analisi storiche contemporanee stiano comprovando per i Vangeli una datazione estremamente prossima a quella del ministero di Gesù.
Più andiamo avanti con la redazione della suddetta trattazione e più ci rendiamo conto di quanto sia complesso non tanto definire le singole argomentazioni, quanto organizzarle e schematizzarle e sintetizzarle. Questa difficoltà è correlata al fatto che l’enunciazione dei singoli episodi, non rappresentando di per sé un’attestazione di veridicità, trova maggiore risonanza solo attraverso l’incrocio delle fonti e il conseguente ragionamento su tali intersezioni. Una riflessione necessaria è quella sulla collocazione della figura di Gesù all’interno del contesto storico e culturale dell’epoca. Siamo nel periodo del secondo tempio, i territori dell’attuale Siria, d’Israele, Libano e Palestina sono totalmente sottoposti al dominio di Roma e all’interno della comunità ebraica è fervente il sentimento d’attesa per la venuta di un messia che possa guidare il popolo in un’insurrezione contro l’impero. La comunità dei credenti è organizzata in una struttura al cui vertice figura il Sinedrio ma si sviluppano molteplici gruppi e sette che divergono non solo per pratiche cultuali ma anche per modus operandi e intenti politici. Proliferano i presunti profeti e non solo le istituzioni romane ma anche e soprattutto le stesse istituzioni ebraiche vigilano con attenzione l’ambiente settario al fine di placare e soffocare qualsivoglia movimento orientato a intaccare lo status quo. Farisei, sadducei, zeloti, esseni: ogni gruppo interpreta a suo modo la legge mosaica e non sono rari gli scontri interni per la detenzione del potere. In questa situazione, qui estremamente semplificata, tra i vari personaggi più o meno noti si fa largo la figura di Giovanni Battista. Giovanni, asceta e profeta, battezza i suoi discepoli nel fiume Giordano e in breve tempo riesce a divenire il più seguito tra i predicatori. Egli stesso però riconosce, secondo le scritture, in Gesù il messia5 e invita i suoi stessi discepoli a seguire la predicazione del Nazareno.

Sei tu colui che deve venire, o dobbiamo aspettare un altro?
Mt 11,3

La figura del Battista, tra le più importanti non solo per il cristianesimo ma anche per l’islamismo, meriterebbe approfondimenti autonomi ma è necessario parlarne brevemente in quanto tappa fondamentale per la definizione di una vita di Gesù. Nelle scritture Giovanni, pur riponendo estrema fiducia nel messaggio del cugino – sì, la tradizione attribuisce un grado di parentela tra Gesù e Giovanni –, durante la prigionia, inviò due tra i suoi discepoli a chiedere se fosse davvero lui “colui che deve venire”. Se non si fosse trattato di un episodio realmente avvenuto, per quale motivo gli evangelisti avrebbero inserito un passaggio tanto ambiguo? Per quale motivo avrebbero dovuto mostrare i dubbi nutriti dal secondo più grande profeta d’ogni tempo6 riguardo la messianicità di Gesù? Lo stesso messaggio predicato dal Nazareno è qualcosa che disattende le aspettative del popolo ebraico. Gli israeliti speravano in una figura politica e battagliera, una figura di comando che li avrebbe guidati con le armi verso la liberazione dall’oppressione straniera. Il messaggio di Gesù è però diverso e disattende tali aspirazioni.

Rendete dunque a Cesare quello che è di Cesare, e a Dio quello che è di Dio.
Mt 22,21

Il Nazareno invita il popolo a rendere il dovuto tributo a Cesare poiché la ricompensa del giusto non è nei beni materiali e nella vita terrena ma nel regno che verrà dopo la morte. Questo significato, che a noi pare noto e conosciuto, era allora rivoluzionario così come lo erano la predicazione pacifica e certi spunti che rimandano a un concetto di non-violenza. Un’attenta disamina storica e filosofica del pensiero gesuano ha portato alcuni studiosi ad accostarlo alla setta degli esseni, movimento cenobitico e monastico dalla forte impronta esoterica e sapienziale. Gli esiti di tali studi hanno lasciato emergere similitudini incredibili tra cristianesimo e culto essenico sia in termini filologici – l’utilizzo di espressioni specifiche oltreché la concordanza di certe visioni esegetiche e veterotestamentarie – che in termini di consuetudine cultuale e culturale. Sebbene la tesi di un Gesù esseno o quantomeno di un Gesù vicino agli esseni sia oggetto di dibattito e meriti anch’essa d’essere al vaglio, è utile constatare come, ancora una volta, la delineazione di una cornice culturale precisa orienti la strada in direzioni interessanti e suggestive.
A dare ulteriore robustezza alla suddetta cornice c’è poi la precisione di certi dettagli. Prove archeologiche e fonti romane confermano che la crocifissione fosse il metodo usato nella regione per giustiziare i condannati7 ma non solo: il ritrovamento della cosiddetta Iscrizione di Pilato nella zona di Cesarea e svariate attestazioni documentali romane rendono più che ammissibile l’esistenza e la funzione della figura di Ponzio Pilato, prefetto di Giudea, protagonista dell’episodio evangelico del processo a Gesù. Ma su Ponzio Pilato ci si concentrerà a breve, quando apriremo il discorso sugli apocrifi; restando invece sui canonici, uno degli argomenti più discussi e spesso citati quando si cerca di legittimare la veridicità dei resoconti è quello della tomba vuota. È bene premettere, prima di concederci questa breve digressione, che analizzeremo il racconto del ritrovamento nello specifico contesto storico e culturale dei tempi, senza addentrarci nell’intricata discussione teologica riguardo la resurrezione. La storia, i cui dettagli coincidono in tutti e quattro i Vangeli, narra che tre donne (Maria Maddalena, Maria di Cleofa, Maria Salome) si sarebbero recate presso il sepolcro di Cristo al fine di ungerne il corpo con olii come da usanza ma che avrebbero trovato il sepolcro vuoto. L’episodio risulta cruciale in quanto, secondo le ricostruzioni, le donne nel periodo intertestamentario non erano considerate testimoni affidabili; dunque, se il resoconto evangelico fosse stato costruito ad hoc e a posteriori, perché non raccontare di un ritrovamento ad opera di individui la cui testimonianza sarebbe stata maggiormente soppesata? Questa semplice domanda ci permette di porre l’accento su uno tra i criteri maggiormente citati in ambito accademico: il criterio dell’imbarazzo, ossia: quando un racconto mette in difficoltà la posizione della chiesa primitiva, fiaccandone le argomentazioni rispetto ai detrattori, è da considerarsi plausibile in quanto la chiesa primitiva, appunto, non avrebbe avuto interesse a creare una narrativa deleteria alla sua immagine.
Il criterio dell’imbarazzo può essere applicato non solo al succitato ma a diversi passaggi dei canonici, alcuni dei quali figurano una esposizione scarna, filologicamente priva di fronzoli stilistici e, finanche in taluni tra i passaggi relativi ai miracoli, di abbellimenti. Gesù, ad esempio, viene raccontato spesso a intrattenersi con poveracci, mendicanti, meretrici; parlava per parabole talvolta criptiche, nascondeva la sua identità messianica; non cercava i favori delle caste sacerdotali e potenti, trasgrediva il sabato; oltrepassava in sostanza la soglia d’accettazione che la tradizione ebraica deteneva da secoli. È importante, ritornando all’argomento della tomba, soffermarci su un altro aspetto. Quello della mancanza di ritrattazioni e smentite: non sussistono attestazioni storiche di palinodie da parte degli ipotetici testimoni oculari della tomba vuota né risultano ad oggi pervenute testimonianze attendibili di congetture che negherebbero il fatto in sé. Solo in epoca moderna, secoli dopo, sono sorte ipotesi alternative riguardo i perché della tomba vuota8. Ma tali idee, per di più, intaccano il criterio storico-critico dell’economicità: a parità di presupposti tra una serie di supposizioni, in accordo col rasoio di Occam, è da preferire quella più semplice. Dunque, almeno per ora, la maggior parte degli storici relega tali ipotesi alternative all’ambito della speculazione. 
Il criterio di economicità e quello dell’imbarazzo sono strumenti utilizzati nell’analisi storiografica di ogni evento e/o personaggio citato nei testi antichi e per alcuni tra questi s’ergono a comprovazione d’autenticità. Sorge dunque spontaneo domandarsi perché, in presenza di tali indizi, per Gesù di Nazareth il dibattito venga talora ritenuto ancora in piedi. Quando si fa analisi storica ciò che si deve cercare è appunto la verità o quantomeno definire una soglia di probabilità. E la probabilità sembra pendere verso una specifica direzione. Tornando al criterio dell’imbarazzo c’è da dire che questo può essere anche stravolto dando forma a una domanda alternativa: perché, se il cristianesimo fosse una costruzione posteriore, la chiesa primitiva non avrebbe canonizzato resoconti favorevoli? In quest’ottica arriviamo alla necessità di esaminare i Vangeli apocrifi, ossia non riconosciuti come veritieri dalla chiesa e ritenuti quindi fonti esterne. Le trame di questi testi sono eterogenee e variegate e, se da un lato alcuni presentano contenuti astrusi e dibattuti, altri propongono resoconti assimilabili a quelli riconosciuti. La scelta di operare questo balzo repentino non significa che abbiamo esaurito gli argomenti e le disquisizioni sui canonici. Anzi, ci sarebbe molto altro da dire e molte altre domande da porsi, ma – come già ribadito – lo scopo di questo articolo è dare un’impronta, fare una sintesi, lanciare uno stimolo che ognuno può raccogliere, andando ad approfondire ulteriormente gli spunti che suscitano maggior interesse.

Con questo invito si chiude la prima parte della nostra disamina. Abbiamo scelto di agevolare la lettura tramite una formula episodica in quanto, trattandosi di un argomento labirintico e difficile, ci è sembrato congruo suddividere il carico informativo in due pubblicazioni. Nel prossimo segmento, come accennato, partiremo dalle fonti apocrife e arriveremo a tentare di trarre le doverose conclusioni. Nel frattempo, si ringrazia per la lettura.


1 Nome aramaico di Gesù. Il significato – “Yahweah ci salva” – lega il Cristo al dio veterotestamentario del popolo d’Israele.
2 Ne parla nel dettaglio Giuseppe Flavio in Antichità Giudaiche ma sussistono varie altre fonti.
3 Lc 2, 4-7; Mt 2, 1-13.
4 Lo scrittore cartaginese ne parla nella sua opera Adversus Marcionem.
5 Gv 1,29; Mt 3, 13-17; Gv 3,30.
6 Alcuni passaggi evangelici sembrano identificare nel Battista la reincarnazione del profeta veterotestamentario Elia, asceso al cielo e oggetto di particolare venerazione.
7 Ne parlano, tra gli altri Seneca e Livio. Discorso complesso invece è quello riguardo la forma dello strumento dell’esecuzione di Gesù. Giusto Lipsio, umanista fiammingo, descrive nel De cruce diverse tipologie di strumenti d’esecuzione, tra i quali uno a forma di T. L’apocrifo Lettera di Barnaba indica chiaramente una forma a T per il patibolo sul quale morì Gesù.
8 Tale congettura è proposta generalmente come ipotesi della congiura degli apostoli.

A cura di Marco Marra

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